domenica 20 ottobre 2019

Dromedarii


Il dromedario è un artiodattilo (cioè un ungulato con un numero pari di dita e la cui zampa è retta dal terzo e quarto dito) alto circa due metri che vive, ora allo stato domestico, in tutta l’Africa del nord, nella Penisola arabica e in gran parte dell’Asia minore.
La sua domesticazione è avvenuta tra circa il V ed il IV millennio a.C. nella penisola arabica; le sue caratteristiche di adattabilità all’ambiente desertico, sia di sabbia sia di sassi, lo hanno reso da subito un compagno ideale per gli Arabi, i quali traggono tuttora da esso latte, carne, lana, sterco combustibile.
Non di minore importanza è stato il suo utilizzo sia come animale da soma (riesce a portare un carico di 150-200 kg) sia da monta.

Fin dal principio della sua domesticazione, i predoni arabi del Madian, una antica regione oggi compresa tra l’Arabia Saudita, il sud della Giordania, il sud di Israele ed il Sinai, appartenenti a tribù camite e semite, utilizzarono l’animale per le loro scorrerie e per compiere rapide incursioni contro i popoli vicini, fino a colpire i Babilonesi prima ed i Persiani poi.
E’ con questi ultimi che l’animale assume un ruolo importante nell’esercito. Diodoro Siculo, nella sua Biblioteca Storica (II 54, 7), nella digressione sull’Arabia fornisce delle notizie sui dromedari raccontando come in guerra ciascuno di questi animali fosse montato da due arcieri seduti di spalle l’uno rispetto all’altro, in modo che l’uno avesse potuto colpire chi si trovava di fronte e l’altro chi veniva da tergo. 


Fu Ciro il Grande che rese l’uso di questo animale particolarmente efficace negli schieramenti persiani, nonostante i molteplici svantaggi di questi rispetto ai cavalli, che di norma quindi erano preferiti ai dromedari.
§  Il dromedario è molto più riottoso alle evoluzioni che vengono eseguite dalla cavalleria durante la battaglia, con cariche, arresti, improvvisi scarti e mobilità estrema durante i corpo a corpo tra le truppe montate.
§  Il dromedario è mediamente più lento nella corsa, anche se di poco, ad esclusione dei terreni sabbiosi solo sui quali supera in velocità il cavallo.
§  Infine, l’odore dei dromedari disordina i cavalli che sono insofferenti al loro odore. Durante le guerre persiane, Erodoto racconta (Storie, Libro VII, 87) come, nella marcia delle truppe montate persiane di Serse, i dromedari fossero stati posti in fondo alla colonna proprio per evitare di innervosire i propri cavalli.



Questa insofferenza dei cavalli nei confronti dell’odore dei dromedari venne utilizzata da Ciro il Grande nella battaglia di Thymbra (547 a.C.), mandando all’attacco i suoi reparti di cammellieri per sgominare la temibile cavalleria di Creso.
Ciro, quando vide i Lidi schierati per la battaglia, ebbe paura della loro cavalleria e dietro suggerimento del Medo Arpago operò come segue: radunò tutti i cammelli al seguito del suo esercito per il trasporto di vettovagliamenti e salmerie, li sbarazzò del carico e li fece montare da soldati equipaggiati da cavalieri; al termine di tali preparativi, ordinò a questi soldati di marciare in testa all’esercito contro la cavalleria di Creso; ordinò poi alla fanteria di avanzare dietro ai cammelli e infine alle spalle dei fanti schierò l’intera sua cavalleria. […] Queste furono le sue disposizioni: i cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica perché i cavalli hanno un grande terrore dei cammelli, non riescono a sopportarne la vista e neppure a sentirne l’odore. Appunto per ciò aveva escogitato questo astuto espediente, per impedire a Creso di utilizzare la cavalleria, con la quale invece il re lidio contava di coprirsi di gloria. In effetti quando avvenne lo scontro, non appena ebbero fiutato e visto i cammelli, i cavalli retrocedettero, e Creso vide andare in fumo così tutte le sue speranze.
[Erodoto, Storie, Libro I, 80]


Cinque figurini: due armati di arco, due di sciabola ed uno di mazza

Gli Arabi che militavano nelle fila del re persiano non vennero mai sottomessi e mai versarono alcun tributo a Dario; erano inclusi nell’esercito come alleati.
Erano vestiti con ampie tuniche ed erano armati con lunghi archi (circa 2 metri) a curvatura inversa che portavano sulla spalla destra (Erodoto, Storie, Libro VII, 69). Gli archi erano archi compositi e per tenderli occorreva piegarli in senso inverso alla normale curvatura del legno; ciò imprimeva alla freccia scoccata una maggiore forza di penetrazione.
L’uso dei dromedari non scomparve con la fine degli eserciti orientali e con l’arrivo dei romani; questi, anzi, li utilizzarono sul fronte mediorientale, proprio per le loro caratteristiche. Livio ci informa, attraverso la sua Storia di Roma (XXXVII 40, 12), che tra i vari tipi di ausiliari sagittarii, esistevano anche gli arcieri Arabi che montavano i dromedari (inquadrati nei reparti ausiliari di cavalleria detti appunto Dromedarii). Questi ultimi, oltre all’arco, erano dotati di una spada particolarmente lunga per poter colpire, considerando la notevole altezza della montatura, fino in basso.
Le due basette di guerrieri arabi su dromedari, una di tre figurini ed una da due


Bibliografia

§  Erodoto, Le Storie Libri I, II, Garzanti 2005; trad. it. dal greco di Fulvio Barberis.
§  Casadio Valerio, L’arciere nell’antichità greca e romana, Evoé Edizioni, Teramo 2010.
§  Affinati Riccardo, Storia militare degli animali, Soldiershop Publishing, 2016.

Figurini

Italeri 6010 (1/72) – Saracens Warriors – Cinque dromedari montati da guerrieri.

Imbasettamento

§  Basetta (80×40 mm della Bandua Wargames) di cavalleria media per esercito persiano achemenide: tre dromedari montati da un arciere e due spadaccini.
§  Basetta (80×40 mm della Bandua Wargames) di cavalleria leggera in formazione aperta per esercito arabo: due dromedari montati da un arciere ed uno spadaccino.

Due diversi imbasettamenti per due diversi eserciti

martedì 1 ottobre 2019

Carri falcati persiani

La prima testimonianza dei carri da guerra si riscontra sullo Stendardo di Ur, risalente al 2.500 a.C.
Il carro ritratto è un carro pesante, a quattro ruote, spesso utilizzato per alloggiare il maggior numero possibile di guerrieri e sfruttare l’effetto sorpresa nello schieramento avversario. In questo tipo di carri i finimenti dei cavalli erano poco idonei al traino in corsa ed i cavalli, il cui attacco al carro era al collo e non alle spalle, dovevano sopportare notevoli fatiche.
Carro persiano falcato, accompagnato dalla cavalleria

Intorno alla metà del II millennio, vennero introdotti notevoli miglioramenti tecnici, in particolare sul carro stesso, che passò da quattro a due ruote. Ugualmente, vennero introdotte le falci rotanti, prima sulle ruote, poi sul giogo ed infine, in età del ferro, sotto la pedana del carro.
I carri da guerra furono largamente utilizzati da tutti i popoli del Medio Oriente, Ittiti, Egizi (il faraone Ramses II ne possedeva ventisette mila), Assiri, Babilonesi, Persiani, e spesso divennero il fattore decisivo nelle battaglie. Fattore di successo per gli Ittiti, furono l’arma vincente degli Hyksos per la conquista dell’Egitto.
Nella battaglia di Thymbra (547 a.C.), l’intervento dei carri falcati di Ciro il Grande, posti in retroguardia, fu risolutivo per le sorti favorevoli della battaglia. Fu lui che trasformò i carri da guerra in una vera arma, dotandoli di una propria organizzazione tattica nelle fasi del combattimento.
Il carro falcato trainato da quattro cavalli morelli.

I carri da guerra passarono quindi ad altri popoli, Micenei, Celti, Etruschi, che li utilizzarono nella versione di piattaforma mobile per alloggiare arcieri, nobili e comandanti; utilizzato in guerra o per le parate.
Nelle Storie, Erodoto narra dei carri che Serse portò in Grecia, sebbene non giocarono alcun ruolo per la conformazione sfavorevole del suolo greco.
Anche Senofonte racconta dei carri impiegati nella battaglia di Cunassa (401 a.C.):
Davanti a loro erano schierati i carri cosiddetti falcati a grande distanza gli uni dagli altri: le falci partivano dagli assi, erano disposte in senso orizzontale e rivolte verso il terreno sotto i carri per stritolare quanto avesse incontrato. L’idea era quella di lanciarli contro le fila dei Greci e di farli a pezzi.
Senofonte, Anabasi, I, 8, 10
I carri falcati furono l’arma vincente delle armate Persiane.


La fine dei carri

Tuttavia, non sempre furono invitte. A Gaugamela (331 a.C.) i carri falcati lanciati da Dario contro le falangi di Alessandro vennero in parte neutralizzati da una nuova tecnica. Con l’arrivo dei carri le prime linee si sarebbero spostate lateralmente, aprendo un vuoto dove si sarebbe infilato il carro; lì dentro, i cavalli si sarebbe rifiutati di schiantarsi contro le sarisse delle seconde linee, rimanendo bloccati in una trappola dove i cocchieri sarebbero stati uccisi con facilità.

Ma la vera fine dell’utilizzo dei carri avvenne ad opera dell’esercito romano.
Nella battaglia di Magnesia (190 a.C.), i carri falcati di Antioco III vennero respinti da una fitta pioggia di dardi, sassi e lance, prima che questi potessero impattare sulle fanterie leggere dell’ala destra romana.
Ancor più, come aveva fatto Alessandro, i romani neutralizzarono completamente l’azione dei carri durante la battaglia di Cheronea (86 a.C.) contro l’esercito del Regno del Ponto guidato dal generale Archelao nell’ambito della Prima Guerra Mitridatica (89-84 a.C.).



Anche in questa battaglia, all’arrivo dei carri gli agili manipoli romani si aprirono per far passare i cavalli in corsa, che attraversarono completamente le fila romane. Giunti in fondo, i carri furono fatti bersaglio dei pila della retroguardia, mentre questi cercavano di girarsi e di prendere nuovamente velocità contro i romani.

Problemi tattici dei carri

Due erano i problemi dei carri da guerra.
1) Il primo era dato dalla rincorsa. Solo con un opportuno spazio di rincorsa i carri potevano raggiungere quella velocità che rendeva micidiale il loro impatto sulle linee nemiche. Se il campo di battaglia era troppo corto, la velocità sarebbe stata troppo bassa ed i carri sarebbero stati fermati agevolmente, come accaduto a Chronea. Racconta Plutarco che Silla:
tolse efficacia alla carica dei carri falcati, che raggiungono la loro massima forza d’urto solo dopo una lunga carica, dando loro velocità e impeto necessario alla rottura attraverso la linea avversaria. Se la carica inizia da breve distanza risultano inefficaci e deboli […]. I primi carri partirono così debolmente e lentamente, che i Romani li respinsero, per poi batter loro le mani, scoppiando a ridere […]
Plutarco, Vita di Silla, 18, 2-4)


2) Il secondo problema era rappresentato dal terreno. I carri da guerra bene funzionavano nelle ampie steppe mediorientali, ma risultavano particolarmente inadatte ai terreni sassosi della Grecia. Così, oltre a scegliere un terreno poco adatto ai carri, i Romani usarono anche degli accorgimenti che rallentavano la carica dei cavalli: iniziata la carica dei carri, i Romani lanciavano davanti a loro dei cavalli di frisia (triboli) di varie dimensioni, grandi (con i pali lunghi circa 120 cm) e più piccoli che si conficcavano nelle zampe dei cavalli.
Il Re Antioco e Mitridate utilizzarono in guerra quadrighe falcate. Queste dapprima incussero grande terrore, ma in seguito divennero oggetto di derisione. E’ infatti difficile trovare un terreno completamente pianeggiante per il carro falcato, il minimo ostacolo gli impedisce la via e viene catturato se solo uno dei due cavalli viene colpito o ferito. Ma la maggior parte di essi furono annientati da questa tecnica adottata dall’esercito Romano; non appena si ingaggiava la battaglia, i Romani lanciavano su tutto il campo i triboli, contro i quali le quadrighe in corsa scontrandosi si distruggevano. Il tribolo è una macchina da difesa formata da quattro pali, che, in qualsiasi modo si scagli, sta su tre piedi ed è pericolosa per il quarto piede che sempre sta diritto.
Vegezio, Epitoma Rei Militaris


Bibliografia

§  Senofonte, Anabasi, Garzanti 1994; trad. it dal greco di Andrea Barabino.
§  Plutarco, Vite di Lisandro e di Silla, BUR 2001, trad. it. di F. M. Muccioli e L. Ghilli.
§  Vegezio, L’arte della Guerra (Epitoma Rei Militaris) a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Oscar Mondadori 2001.
§  Andrea Frediani, Le grandi battaglie di Alessandro Magno, Newton Compton, 2004.

Figurini

Zvezda 8008 (1/72) – Cavalleria persiana (V-IV sec a.C.), un carro falcato.

Imbasettamento

Basetta 8 x 8 della Bandua Wargames.
La sabbia utilizzata per la base proviene dalla Cappadocia.

domenica 1 settembre 2019

Fanteria persiana Achemenide

Nel 480 a.C., il Re dei Re Serse avvia una campagna militare contro la Grecia, dando inizio alla Seconda Guerra Persiana (480-479 a.C.). L’immenso esercito attraversa lo stretto dei Dardanelli, marcia attraverso la Tracia e la Macedonia e poi si dirige a sud, verso le città greche.
Erodoto, nelle sue Storie ne racconta sì i fatti, ma fornisce anche una descrizione dello stesso esercito di Serse, in cui ogni Satrapia, ogni regno sottomesso, ogni alleato fornisce un suo contingente.
Al pari del catalogo delle navi di Omero, la descrizione di Erodoto è precisa e sufficientemente dettagliata, almeno per alcuni popoli; per altri è solo accennata.

Nel Libro VII delle Storie, dal paragrafo 61 al paragrafo 83, Erodoto descrive le truppe appiedate di Serse, per passare poi alla descrizione delle truppe montate, cavalleria, cammelli e carri da guerra (84-88) e successivamente della flotta (89-99). Questo è quanto ci dice Erodoto dei Persiani:

“C’erano i Persiani così equipaggiati: un copricapo floscio, detto tiara, sulla testa; colorati chitoni con maniche intorno al corpo e corazze di piastre di ferro simili nell’aspetto a squame di pesce; brache intorno alle gambe; invece di scudi portavano gerre di vimini e cuoio, sotto pendevano le faretre; avevano corte lance, grandi archi e frecce di canna; inoltre pugnali che pendevano dalla cintura lungo la coscia destra.”
[Erodoto, Storie, Libro VII, 61]
Una descrizione simile, riguardo l’abbigliamento dei Persiani, la si ritrova anche in Senofonte, che parla di tuniche lussuose e calzoni variopinti (Senofonte, Anabasi, Libro I, 5, 8).

Ircani

L’Ircania era un’antica satrapia persiana localizzata a sud del Mar Caspio (chiamato dai Greci, appunto, Mare Ircano), nel territorio che oggi è parte dell’Iran settentrionale e parte del Turkmenistan.
Fanteria leggera ircana, in formazione aperta, su un terreno arido e sassoso.

Come tutte le altre satrapie, anche l’Ircania fornì truppe al Re dei Re. Erodoto li liquida molto velocemente, dicendo solo che gli Ircani erano equipaggiati come i Persiani. Tiare e chitoni colorati, quindi, corte lance, pugnali e scudi di vimini rinforzati con il cuoio.

Sparabara

Gli sparabara erano i fanti di prima linea dell’esercito Persiano. Prendevano il nome dal loro scudo (come del resto gli opliti da hoplon ed i peltasti da pelta), lo sparabara, appunto, un grande scudo rettangolare, grande quasi quanto un uomo, fatto in vimini, rivestito in cuoio e rinforzato in alcuni punti in metallo. Oltre allo scudo avevano una armatura medio-pesante come il linothorax ed una lancia lunga quasi tre metri.
Gli sparabara erano i primi a venir in contatto con il nemico nel combattimento corpo a corpo. Essi inoltre assolvevano ad un’altra importante funzione, quella di proteggere gli arcieri mentre scoccavano i propri dardi.
Gli Sparabara con i loro grandi scudi di vimini

Il loro armamento però, si rivelò inefficace quando dovettero affrontare le schiere greche dotate di armi lunghe: la lunghezza della loro lancia non gli permetteva di avere un raggio d’azione sufficiente a contrastare le lance delle falangi greche. Inoltre, lo scudo di vimini, se da un lato garantiva un’ottima difesa contro i dardi, si dimostrò inefficace contro la forza d’urto delle lance oplitiche.

Arcieri

Gli arcieri persiani achemenidi, anch’essi con tiare e chitoni colorati, erano organizzati in ranghi profondi 10 file. La prima fila era occupata dagli sparabara che, con il loro grande scudo, avrebbero dovuto proteggere gli arcieri dal tiro con l’arco nemico e creare una barriera che consentisse agli arcieri di resistere agli assalti, non tanto di cavalleria, ma almeno della fanteria.


Le grandi faretre che hanno questi arcieri, oltre che nelle descrizioni di Erodoto, si ritrovano raffigurati nei murali ceramici invetriati conservati nel Pergamon Museum di Berlino, provenienti dal palazzo di Dario I a Susa.

Immortali

Gli Immortali (Armtaka) formavano la guardia imperiale del Re persiano, ed erano l’unità d’élite.
I Diecimila soldati persiani scelti […]  si chiamavano Immortali per la seguente ragione:  se uno di loro veniva a mancare al numero, colpito da morte o da malattia, ne veniva scelto al suo posto un altro, sicché non erano mai né più né meno di diecimila. Il maggior lusso lo esibivano i Persiani, che erano anche i più forti. Il loro abbigliamento era quello descritto, ma inoltre si distinguevano per il molto oro che avevano addosso.
Erodoto, Le Storie, Libro VII, 83
Come ci informa lo stesso Erodoto, al di là del lusso sfoggiato anche durante la battaglia (bracciali, collane ed anelli d’oro), l’equipaggiamento degli Immortali era lo stesso degli altri Persiani, sebbene fossero più addestrati al combattimento rispetto alle altre unità.
Gli Armkata, guardia personale di Serse

Figurini

Zvezda 8006 (1/72). Immortali, fanteria persiana (V-IV sec a.C.)

Imbasettamento

Basette 4 x 8 della Bandua Wargames e basette in compensato autoprodotte.
§  Sparabara, fanteria media 9 figurini per basetta (2 basette);
§  Armtaka, fanteria media 9 figurini per basetta;
§  Arcieri, fanteria leggera 8 figurini per basetta;
§  Ircani, fanteria leggera in formazione aperta, 6 figurini per basetta;
La sabbia utilizzata per le basi è originale della Cappadocia.
Schieramento della fanteria persiana

Bibliografia

Erodoto, Le Storie Libri V, VI, VII, Garzanti, 1990; trad it. dal greco di Fulvio Barberis

martedì 20 agosto 2019

Fanteria sannita

La Lega sannitica, o più semplicemente i Sanniti, era una confederazione di quattro tribù di stirpe osca: Caudini, Irpini, Pentri e Carricini. Il loro vasto territorio (il cui nucleo comprendeva l’attuale Campania) era delimitato a sud e a est dal Tavoliere delle Puglie, più a nord dai monti della Maiella nell’alto Abruzzo, a nord-est dai territori dei Piceni e degli Umbri, a nord-ovest dei Sabini, ad ovest dalle terre dei Volsci, degli Aurunci, dei Sidicini e dei Latini e dal Mar Tirreno.

Fanteria Leggera Sannita in formazione aperta, armata di giavellotto, scudo, spada
Il territorio occupato dalla confederazione sannita si espanse progressivamente fino a toccare il basso Lazio. Nel 343 a.C. i Sanniti occuparono la città etrusca di Capua. Questi chiesero aiuto a Roma che, nonostante avesse siglato un trattato di amicizia con i Sanniti nel 354 a.C., accolse la richiesta di aiuto degli Etruschi, dando inizio alla Prima Guerra Sannitica.
Evolutasi dall’antica forma di guerra tribale, ove era la massa dei guerrieri che affrontava il nemico, in epoca storica (cioè all’epoca delle Guerre Sannitiche raccontate da Tito Livio, principale fonte sull’organizzazione dei Sanniti) la fanteria sannita era organizzata in coorti composte da 400 armati e combatteva con la tattica manipolare. Proprio gli iniziali successi contro i Romani sembrano avvalorare l’ipotesi che essi operassero mediante formazioni aperte, leggere e mobili, piuttosto che secondo schieramenti rigidi come una falange serrata, formazioni che meglio si adattavano al territorio montuoso del Sannio.

Armamento

Il territorio sannita era prevalentemente montuoso. Perciò il loro armamento non dovette essere troppo pesante. Al di là delle falangi oplitiche, l’armamento difensivo della fanteria media sannita comprendeva (secondo Diodoro Siculo) una corazza, un elmo e lo scudo.
Fanteria pesante sannita. armata come gli opliti greci e con l’elmo adorno di piume di aquila. La corazza degli opliti della prima fila è quella formata da tre dischi di bronzo.
Il petto del fante era protetto da una piastra rotonda di circa venti centimetri di diametro (talvolta decorata con la figura di un animale) oppure tre dischi più piccoli legati tra loro da una serie di fibbie in metallo e lacci in cuoio che si intrecciavano sulle spalle e sotto le ascelle.
Sotto l’armatura indossavano una tunica a maniche corte di lino o di pelle che copriva il torace fino ai fianchi. Spesso indossavano una larga cintura in pelle munita di fibbie in bronzo.
Gli elmi erano di varia fattura, ed erano ornati, soprattutto quelli degli ufficiali, da pennacchi e piume di aquila.
Lo scudo era di forma ellittica allungata, diviso verticalmente in due da una nervatura con un umbone al centro (lo
scutum), realizzato con giunchi intrecciati e ricoperto di pelle di pecora all’esterno.
L’armamento si alleggeriva per le formazioni non impiegate nel combattimento diretto, perdendo prima la corazza, poi anche l’elmo.

Le armi di offesa di cui erano dotati i soldati comprendevano una corta spada e un’asta da urto, affiancata eventualmente da un giavellotto, che diveniva l’unica arma nelle fanterie leggere utilizzate per ghermire gli avversari.

Legio Linteata

La Legio Linteata era una casta di guerrieri scelti dell’esercito Sannita, formata sul modello del Battaglione Sacro tebano. Selezionati tra i guerrieri che si erano dimostrati più valorosi e capaci in battaglia, questi facevano un voto alle divinità protettrici sannite di difendere il proprio popolo a costo della vita (devotio).
L’iniziazione dei nuovi componenti della Legione (descritta nelle Storie di Tito Livio, Libro X) avveniva tramite un rituale durante il quale l’adepto prestava giuramento di fedeltà alla Legione stessa e dove consacrava la propria vita alla battaglia in difesa del proprio popolo. Il giuramento prevedeva anche la pena capitale per atti di diserzione, codardia e insubordinazione.
Legio Linteata. Il grande scudo ellittico, tipico dei sanniti, e lo stendardo riportano i colori e le forme della bandiera sannita, così come sono deducibili dagli affreschi presenti nella tomba del Guerriero di Paestum.
La panoplia, ripresa dagli opliti greci con cui ebbero contatti, era composta da una corazza formata da tre dischi bronzei, legati tra loro e disposti a triangolo, sia nella parte anteriore sia nella parte posteriore.
Alti schinieri proteggevano le gambe; la testa era riparata da un elmo di varie fatture su cui venivano fissati in cima dei pennacchi per far sembrare più alti i guerrieri mentre sui lati venivano praticati fori per infilarci piume di aquila.
Infine, lo scudo argivo tipico di tutti gli opliti del Mediterraneo.
Armi di offesa erano la spada e l’asta.

Consistenza numerica

Secondo Polibio, all’inizio della Seconda Guerra Punica (218 a.C.) l’esercito sannita, alleato dei Romani, era composto da 70.000 fanti e 7.000 cavalieri.

Secondo Tito Livio, nel 293 a.C., per la scelta dei membri della Legio Linteata, si radunarono ad Aquilonia 60.000 uomini. Di questi ne vennero scelti 16.000 ed altri 20.000 per altre formazioni per un totale di 36.000 armati.

Bibliografia

§  E. T. Salmon, Il Sannio ed i Sanniti, Einaudi, Torino 1995.
§  Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832.

Figurini

Hat 8040 (1/72) – Fanteria Italica, 8 pose (una posa viene esclusa perché serve a formare la falange etrusca).

domenica 28 luglio 2019

Fanteria italica


Il nerbo degli antichi eserciti italici era formato dai cittadini stessi, che si armavano a proprie spese secondo le proprie possibilità; come per tutti gli aspetti della vita sociale, il censo definiva obblighi e diritti anche all’interno dell’esercito. In esso, ogni uomo veniva inquadrato nella formazione che gli competeva, attraverso la possibilità che aveva di procurarsi le armi. 


Presso i Sanniti, così come presso gli Etruschi, i magistrati preposti alla formazione dell’esercito sceglievano le persone più valenti in battaglia che a loro volta sceglievano tra i loro conoscenti quelli che reputavano migliori, e così via, fino a raggiungere il numero totale di circoscritti stabilito per legge.
Tuttavia, a partire dal V-IV sec. a.C. gli uomini dell’Appennino centrale iniziarono a combattere come mercenari al servizio delle città costiere dell’Etruria e della Magna Grecia, come testimoniano i frequenti ritrovamenti di armi e cinturoni nelle tombe maschili.
I Mamertini, che reduci da Siracusa arrivano a Messina intorno al 283 a.C., sono mercenari campani, cioè Italici; i quali portano in Sicilia la lingua osca, come si evince da una iscrizione ora conservata al Museo di Messina, scritta con caratteri greci ma in lingua osca, dove la parola “
meddices” è facilmente riconoscibile. 


Gli armamenti degli eserciti variavano con le possibilità economiche, ma anche in base alla conformazione del terreno. La presenza di catene montuose nelle zone interne dell’appennino centro-meridionale, fece sì che gli eserciti fossero formati in larga misura da fanterie leggere che utilizzavano principalmente le tecniche della guerriglia e della guerra alpigiana. Genti che conoscevano profondamente i luoghi ove abitavano, attaccavano gli intrusi investendoli con una pioggia di lance, frecce e sassi, per poi ripiegare velocemente, sopperendo con l’astuzia la mancanza della forza militare.
La combattività dei popoli italici e la quasi invincibilità sui terreni aspri ma a loro familiari fu nota anche ai colonizzatori greci che, nonostante dominassero le pianure costiere grazie alla compattezza della falange oplitica, mal resistettero agli scontri sui territori dell’interno. Ma che sfruttarono anche a loro favore, con le navi da guerra picene che scortavano le navi mercantili greche in navigazione nel medio Adriatico, contro i pirati illiri (cfr. Stele Novilara).
I Vestini ed i Peligni erano considerati ottimi tiratori con l’arco e con la fionda, formata da piccole strisce di cuoio con la quale lanciavano dei proietti ellissoidali in piombo su cui scrivevano il nome del proprio popolo oppure delle invettive contro i nemici; anche i Marsi furono ottimi lanciatori di verretta, un’asta lunga 3 piedi e mezzo con una punta in ferro di sezione triangolare. 


Qualora si presentasse la necessità di scontri frontali tra grandi unità, lo schieramento prevedeva la disposizione in tre corpi di fanteria, suddivisa per il tipico ordinamento degli antichi italici cioè la coorte, disposti in ala destra, sinistra e corpo centrale, con le cavallerie sulle ali e gli schermagliatori a supporto.
Le fanterie pesanti di molte popolazioni dell’Italia antica, quali i Volsci, i Sabini ed i Sanniti, armati sul modello degli opliti greci, usavano un’armatura pettorale formata da un disco di bronzo di circa 20 cm di diametro o da una lastra delle stesse dimensioni. La lastra veniva tenuta leggermente sulla sinistra, a protezione del cuore, da cui il nome Kardiophylax.
Gli schinieri, sempre in bronzo, erano molto alti, a difesa intera delle gambe, dal malleolo sino alla parte superiore del ginocchio. Gli Ernici, secondo Vegezio, indossavano uno schiniere in cuoio sulla sola gamba destra, perché la sinistra era coperta dal loro ampio scudo. 


Molto diversi tra loro gli elmi, dotati di visiere, di nasali, di paragnatidi; in cima, venivano inserite creste, pennacchi o piume, per far apparire il fante più alto e per dotarlo di nobile aspetto. Tra i Piceni, il modello più utilizzato era quello a forma troncoconica con pareti convesse, a cui veniva fissata una cresta, un rivestimento interno di materiale deperibile e dei paragnatidi; l’elmo a disco, quello del Guerriero di Capestrano, era un elmo da parata.
Le truppe leggere schermagliatrici degli Equi e degli Ernici si proteggevano il capo con cortecce di sughero o con pelli di orso e di lupo.
Molto diversificati tra loro furono anche gli scudi. Oltre al grande scudo argivo usato dalla maggior parte delle fanterie pesanti italiche, i Lucani usavano scudi di vimini ricoperti di cuoio; i Bruzzi impugnavano dei piccoli scudi rotondi, come raffigurato in alcune loro monete; i Liguri degli scudi piccoli e leggeri in rame mentre molto grandi erano quelli dei Marsi. Altri scudi avevano una forma allungata, più larghi nella parte superiore (a protezione del viso e del petto), più stretti nella parte inferiore (verso le gambe, spesso protette da schiniere).
Schermagliatori Equi che indossano pelli di orso e di lupo

Così protetti, i fanti delle prime file scagliavano il pilo, fatto da legno di frassino, mirto o di corniolo; quello degli Etruschi, ripreso poi dai Romani, era tale che si piegava al primo impatto, in modo da essere inservibile ai nemici. Dopo il lancio, i fanti estraevano le spade appese al fianco sinistro per mezzo di un balteo: spade corte e grosse, a doppio filo e munite di punta, riprese anch’esse dai romani.

Bibliografia

§  Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832.
§  Giacomo Devoto, Gli antichi italici, Vallecchi, 1931.
§  Museo Archeologico di Spoleto, Spoleto Il villaggio degli Umbri e la città dei Romani, 2015.

Figurini

Hat 8040 (1/72) – 48 figure in 8 pose nella scatola. Ho escluso 4 figurini in una posa che sono utilizzati per la fanteria Etrusca.

domenica 21 luglio 2019

Cavalleria italica


Cavalleria Sannita

Il Sannio è una regione sostanzialmente montuosa, dunque non particolarmente idonea all’utilizzo di unità montate. Eppure, la cavalleria media sannita godeva di un’ottima fama. Gli stessi romani la utilizzarono come cavalleria alleata durante la seconda guerra punica. E rimase tale fino alla guerra sociale (90-88 a.C.), quando tutti gli italici delle regioni centro-meridionali ottennero la cittadinanza romana. Da allora, divenne parte integrante dell’esercito romano.

Cavalleria media, armata di lancia, scudo ed armatura

Cavalleria Campana

Nei molti scontri, essi [i Campani] erano di norma vincitori nelle battaglie equestri, mentre in quelle di fanteria essi erano battuti.
[Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVI, 4]

La Campania è sempre stata una regione ricca; le sue numerose pianure erano ottimi pascoli per gli allevamenti equini della nobiltà locale, che forniva i cavalieri necessari alla difesa della capitale, Capua.
Appartenenti a questa aristocrazia, gli
Equites Campanici erano noti come i migliori cavalieri italici, i cui unici rivali furono i Sanniti. I cavalieri Campani cavalcavano cavalli da guerra robusti, seppur piccoli. Indossavano armature di bronzo, scudo e schinieri; erano armati di giavellotti e di spada greca di tipo Kopis.
I cavalieri Campani formavano un’eccellente
cavalleria media. Se da una parte era abile nelle tattiche di schermaglia, con il continuo susseguirsi di cariche e ritirate, dall’altra, grazie all’armamento, risultava adatta anche alla mischia, spesso contro piccoli gruppi di nemici isolati oppure ai fianchi dello schieramento avversario.
Come per tutte le unità campane, la loro scomparsa avvenne alla fine della Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.). In questa guerra, delle due più potenti cavallerie medie italiche, una rimase fedele all’alleanza romana (quella sannita), mentre l’altra (quella campana) passò tra le fila cartaginesi. Dopo la conquista romana di Capua (211 a.C.), la popolazione maschile fu passata per le armi o venduta come schiava, ponendo fine alla loro grande tradizione della cavalleria.
Schieramento di cavalleria media, Sannita o Campana

Cavalleria Etrusca

Alcuni reperti etruschi mostrano cavalieri armati di lancia e spada, protetti da elmo, scudo e piastra pettorale; tuttavia gli Etruschi, pur usando le briglie ed i morsi, non conoscevano le staffe e la sella. E’ difficile pensare, allora, a questi cavalieri come parte delle unità di cavalleria pesante, che impatta sullo schieramento nemico. I cavalieri ritratti appartenevano, in realtà, alla fanteria montata; essi usavano il cavallo solo per spostarsi più rapidamente, ma scendevano dalle montature appena entravano in contatto con il nemico.
La cavalleria etrusca propriamente detta era una
cavalleria leggera; i cavalieri erano armati unicamente di giavellotti e non avevano alcuna protezione personale.
Tuttavia, una scena ritratta su una lastra di rivestimento conservata al museo di Tarquinia mostra cavalieri che combattono in corsa, armati di scudi e con la lancia pronta al tiro. Certo non cavalleria pesante che carica i nemici, ma probabilmente una cavalleria media, con lancia elmo e scudo.
Il compito della cavalleria era di esplorazione e di avanguardia, di ricognizione, di scorta, ed inseguiva i nemici in fuga al termine della battaglia.
Cavalleria leggera, armata solo di lancia

Cavalleria Apula

Le ampie distese pianeggianti della Puglia, rotte sole da dolci vallate, che si estendono dal Gargano a tutto il Tavoliere fino alle punte estreme sul mare, furono tra il VIII e il III secolo a.C. il luogo ideale per l’allevamento equino. Gli Apuli che vi abitavano, avevano la loro base materiale nella coltivazione cerealicola e nell’allevamento dei cavalli, attività che si sostengono vicendevolmente: i cavalli concimavano in loco le terre e la coltivazione dei cereali forniva l’alimentazione anche dei cavalli: il tutto forniva quelli che Virgilio definì come i cavalli “di buona razza” (Eneide XI 678). L’allevamento fu quindi una attività di cui gli Apuli andarono sicuramente fieri, come dimostrano i numerosi conii di molte loro città. I loro cavalli venivano acquistati sicuramente a nord della Apulia, nella terra dei Frentani e dei Marrucini, e ad ovest, dalle popolazioni sannite.
Oltre agli animali, gli Apuli esportarono le loro competenze equestri. Da loro i Tarantini impararono l’arte della cavalleria, che misero a frutto accompagnando Alessandro Magno nella conquista dell’Oriente.
Gli Apuli eccelsero nella cavalleria, combattendo con lancia e scudo, e fornirono numerosi cavalieri ai propri eserciti o ai propri alleati.

Nel 345 a.C. la forte cavalleria dei Messapi (gli Apuli che vivevano più a sud) sconfisse il re spartano Archidamo, che lasciò la vita sul campo nei pressi di Manduria, a pochi Km da Taranto, città a cui voleva fornire aiuto.
Nel 279 a.C., contro Pirro, gli Apuli fornirono 400 cavalieri ai Romani nella battaglia di Ascoli Satriano.
Nelle guerra per il controllo dell’Italia meridionale, gli Apuli, schierati nei due campi avversi, portarono il peso della loro
cavalleria leggera in ambo le parti.
Nel 225 a.C., secondo il console Gaio Fabio Pittore, i Sanniti potevano mettere in campo 70 mila fanti e 7 mila cavalieri, i Lucani 13 mila fanti e 3 mila cavalieri, gli Apuli 50 mila fanti e 16 mila cavalieri; la cifra risulta verosimile se confrontata con i dati sugli allevamenti equini in Apulia. Il numero dei cavalieri disponibili fornisce la prova dell’estrema superiorità della cavalleria Apula su quella degli altri popoli Italici.
Cavalleria leggera, Etrusca o, più verosimilmente, Apula

Bibliografia

§  Leonardo D’Addabbo, Lo spirito guerriero degli antichi Apuli, in Japigia Rivista Pugliese di Archeologia, Anno II, Fasc. III, Brindisi 1931.
§  Vito A. Sirago, L’Apulia dall’indipendenza all’occupazione romana in Études Étrusco-Italiques du Recueil de Travaux d’Histoire et de Philologie 4a Sèrie, Fascicule 31 Louvain 1963.
§  Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832.


Cavalleria italica, leggera in prima fila, seguita da quella media

Figurini

Hat 8054 (1/72) – 12 figurini a cavallo, 6 con armatura e 6 senza armatura; 4 pose.

Imbasettamento

Basette 4 x 8 della Bandua Wargames
Cavalleria media: 3 cavalieri con armatura per basetta
Cavalleria leggera: 2 cavalieri senza armatura per basetta