domenica 23 giugno 2019

La falange oplitica

La caratteristica del fante greco, quella da cui prende il nome l’oplita, è il grande scudo (aspis) argivo, l’hoplon. E’ infatti nella città di Argo che viene introdotta questa innovazione ed è qui che per la prima volta i guerrieri si armano con il pesante scudo. Ma più dello scudo stesso, è l’impugnatura che lo contraddistingue dai precedenti. Questa prevede una imbracciatura (porpax) ed una presa (antilabé). Con questo tipo di impugnatura è possibile tenere lo scudo in un modo più efficace, riuscendo a coprire non solo la parte sinistra di chi lo impugna ma anche il fianco destro di chi sta alla propria sinistra.
Diversamente dagli eroi omerici, poiché lo scudo serve a coprire anche il commilitone, l’oplita greco non può più sbarazzarsene, anche se volesse farlo per affrontare meglio l’avversario e per essere più libero nel colpire. L’oplita deve continuare a tenerlo, in ogni circostanza, per garantire la compattezza della formazione.
La forza dello schieramento greco è ora, non il valore del singolo ed il suo furore come nell’età arcaica, ma la coesione della linea.
Hoplon, armatura e schinieri (fotocomposizione dell’Autore su originali da wikipedia)

Per rimanere a piè fermo all’interno dello schieramento, per mantenere il proprio posto nella fila a qualunque costo, l’oplita deve rispettare una ferrea disciplina, pena lo sfaldamento dell’intero schieramento. Nella battaglia, allora, cambia lo spirito del soldato: all’ebrezza della lotta del guerriero in preda all’invasamento che si getta a capofitto tra le schiere nemiche facendone strage, si sostituisce il rigore della totale padronanza di sé. L’oplita deve possedere una lucida coscienza con cui assolvere al compito di mantenere la posizione. A Platea, il guerriero degno di lode non è lo spartano Aristodemo che si lancia nella mischia per riscattare il proprio onore (Erodoto, IX 71) ma Posidonio che rimane disciplinatamente nello schieramento anteponendo il bene comune alla gloria personale.

L’Armamento

La panoplia dell’oplita è costruita per rispondere a questa esigenza di combattimento. Egli indossa un elmo di bronzo di varie fattezze, una armatura che arriva alla vita (prima di bronzo, successivamente di lino pressato, la linothorax) e gli schinieri che arrivano al ginocchio. Infine, il grande scudo.
Elmi: attico, calcidico, corinzio, illirico, frigio, beotico (fotocomposizione dell’Autore su originali da wikipedia)

Ogni cittadino è obbligato, a procurarsi la propria armatura ed il proprio equipaggiamento, perciò ogni oplita sceglie le fattezze, i colori e i simboli che preferisce per adornare la propria panoplia. Ad esclusione degli opliti spartiati, tutti in possesso di identica uniforme, gli opliti delle città greche formano delle schiere variopinte.
Come arma di offesa, l’oplita possiede sia la spada (
xiphos) sia l’asta (dory).
Lo
xiphos, appeso al fianco sinistro, ha una lama “a foglia di salice” allungata o leggermente lanceolata, per essere utilizzata sia di taglio sia di punta. L’impugnatura, ad una mano ed a “T”, può essere arricchita con metalli nobili e preziosi. L’impugnatura della spada di Agamennone è intarsiata d’oro, mentre quella di Achille è adornata d’argento (Omero, Iliade). L’oplita è addestrato all’uso della spada ma la usa solo in caso di estrema necessità, ad esempio dopo la rottura della falange e la perdita della sua compattezza, come ad esempio nella fase finale della battaglia delle Termopili (480 a.C.). La spada non è l’arma principale dell’oplita; del resto, l’uso della spada richiede una libertà di movimento sul fianco destro che la falange non permette.
Figure armate di xiphos. Fotocomposizione dell’Autore usando: a sinistra pittura su vaso con la Uccisione di Orfeo (foto di Chris Goshey), a destra Combattimento con la spada, pittura su vaso del 390–380 a.C., conservato al Museo archeologico nazionale di Metaponto (usr: Jastrow da wikipedia)

L’arma principale dell’oplita è la dory, un’asta lunga poco più di 2 metri. Diversamente dai guerrieri omerici, l’asta non viene scagliata contro i nemici, ma viene impugnata saldamente per colpire di punta l’avversario. E’ quindi una lunga arma dal manico robusto, da impatto e non da lancio, usata dall’oplita per vibrare il colpo dal di sopra dello scudo oppure dal di sotto, puntando l’arma al ventre dell’avversario.

Lo Scontro

Per la battaglia, la massa degli opliti si dispone in schieramento compatto su otto-dodici ranghi, occupando un terreno concordato tra le due parti, spesso pianeggiante e libero da alberi proprio per meglio operare con la falange. Gli schieramenti si dispongono frontalmente, poi iniziano ad avanzare lentamente per non sfaldare la falange, cantando i peana di guerra, fino ad arrivare a circa uno stadio l’uno dall’altro. Una tromba squilla e gli opliti, mantenendo lo schieramento, avanzano di corsa contro l’altro, anch’esso che avanza in corsa. Le prime linee cozzano violentemente l’una contro l’altra ed iniziano a spingere (othismos), mentre contemporaneamente gli opliti tentano di colpire gli avversari affondando le loro lance da sopra lo scudo. Due blocchi contrapposti che spingono uno contro l’altro e si colpiscono vicendevolmente a colpi d’asta.
Colpire e spingere, ma anche ripararsi dagli affondi nemici. Se il proprio scudo protegge la parte sinistra dell’oplita, egli tenta di riparare il suo lato destro dietro lo scudo del suo commilitone.
Combattimento di opliti, cratere del V sec. a.C., conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Foto di Grant Mitchell, licence CC BY 2.0

Proprio l’azione dell’oplita di ripararsi dietro lo scudo del compagno, provoca una compressione dello schieramento verso destra. Per ovviare alla deriva, il lato destro viene sempre occupato dagli opliti più forti, capaci di opporsi allo slittamento e tenere ferma la falange. L’ala destra, quindi, diventa il posto d’onore e nelle falangi spartiate viene occupato dallo stesso re. Poiché questo fenomeno si verifica in entrambi gli schieramenti, ogni lato destro della falange viene a battersi con il rispettivo lato sinistro del nemico. Per entrambi quindi, il lato destro spesso sopraffà quello sinistro che si comprime ulteriormente ed indietreggia; il risultato è che i due blocchi di falangi contrapposti iniziano lentamente a ruotare, perdendo spesso il senso del campo di battaglia.
Il fenomeno è già noto ai contemporanei, tanto che lo stesso Tucidide lo descrive nello scontro tra Argivi e Lacedemoni (Tucidide, V, 71, 1).
La battaglia termina quando uno dei due schieramenti cede e deve lasciare all’avversario il controllo dello spazio chiuso dove si svolge lo scontro. Con lo sfaldarsi della falange sconfitta e la relativa perdita di controllo dello spazio di battaglia, lo sconfitto indietreggia e fugge. Il vincitore non insegue lo sconfitto, perché non deve cedere agli eccessi. Le pene inflitte dagli Dei agli Achei per gli eccessi di ferocia a cui si abbandonarono dopo la caduta di Troia sono ancora tramandate dagli aedi. In tal modo, almeno negli scontri tra le poleis, le guerre risparmiano grandi stragi di greci.
Alla fine della battaglia i vincitori spogliano i morti delle loro armi e di eventuali oggetti preziosi, da prendere come bottino. Poi si ritirano dal campo e lasciano che ai morti siano celebrate le esequie. Là, dove si vince la battaglia, il vincitore innalza un trofeo.
Le mura ciclopiche di Tirinto (foto dell’Autore)

La disposizione a falange offre una protezione formidabile agli opliti e allo stesso tempo ne fa uno strumento mortale per i nemici. Dal VII al V secolo a.C., la falange oplitica domina incontrastata gli scontri tra le città greche (quelle che contrappongono Sparta, Messene, Argo, Megara, Corinto, Atene).
Le fanterie medie e leggere, scompaginate e disordinate, sono impotenti di fronte al muro di scudi e di lance; armate in modo leggero, le orde barbare che tentano di invadere l’Ellade si infrangono contro il muro compatto di scudi e di lance; le loro armi non sono adatte a scalfire le armature oplitiche e le loro protezioni (di vimini o di cuoio) non sono sufficienti a difendersi dalle punte delle lance.
La superiorità tattica è assicurata alla condizione che i fianchi siano protetti e la falange non sia scompaginata. Il compito di proteggere i fianchi della falange è lasciato alle cavallerie, anche perché le loro eventuali cariche sarebbero comunque inutile contro il muro di scudi. Mentre le cavallerie si scontrano sui fianchi, la falange affronta lo schieramento nemico, cozzando contro un’altra falange o sbaragliando le altre formazioni.
Tuttavia, la situazione inizia a cambiare con la radicalizzazione del conflitto tra le due potenze, con l’imposizione ad altre città ad entrare nelle proprie leghe di alleanza, il rifiuto o la defezione, e la conseguente estensione della guerra agli ambiti cittadini.
La nuova necessità porta lo scontro al di fuori delle regole canoniche delle battaglie ed inizia a portarsi su un piano diverso, dove alla dimostrazione di superiorità nell’agone si sostituisce gradualmente la volontà dell’annientamento con ogni mezzo dell’avversario, attraverso l’inflizione di danni materiali (la distruzione dell’agricoltura e della flotta) e perdite umane (distruzione di città, stragi e riduzione in schiavitù). I mutamenti che si profilano all’orizzonte iniziano a segnare la fine della falange oplitica così come descritta, facendola evolvere gradualmente verso formazioni diverse.

Bibliografia

§  Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino 2008.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti 1985, trad. it. di Franco Ferrari

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