La caratteristica del fante greco, quella da cui prende il nome l’oplita,
è il grande scudo (aspis) argivo, l’hoplon. E’ infatti nella città di Argo che viene introdotta questa innovazione
ed è qui che per la prima volta i guerrieri si armano con il pesante scudo. Ma più
dello scudo stesso, è l’impugnatura che lo contraddistingue dai precedenti. Questa
prevede una imbracciatura (porpax) ed una presa (antilabé). Con questo tipo di impugnatura è possibile tenere lo scudo in
un modo più efficace, riuscendo a coprire non solo la parte sinistra di chi lo impugna
ma anche il fianco destro di chi sta alla propria sinistra.
Diversamente dagli eroi omerici, poiché lo scudo serve a coprire
anche il commilitone, l’oplita greco non può più sbarazzarsene, anche se volesse
farlo per affrontare meglio l’avversario e per essere più libero nel colpire. L’oplita
deve continuare a tenerlo, in ogni circostanza, per garantire la compattezza della
formazione.
La forza dello schieramento greco è ora, non il valore del singolo
ed il suo furore come nell’età arcaica, ma la coesione della linea.
Hoplon, armatura e
schinieri (fotocomposizione dell’Autore
su originali da wikipedia)
Per
rimanere a piè fermo all’interno dello schieramento, per mantenere il proprio posto
nella fila a qualunque costo, l’oplita deve rispettare una ferrea disciplina, pena
lo sfaldamento dell’intero schieramento. Nella battaglia, allora, cambia lo spirito
del soldato: all’ebrezza della lotta del guerriero in preda all’invasamento che
si getta a capofitto tra le schiere nemiche facendone strage, si sostituisce il
rigore della totale padronanza di sé. L’oplita deve possedere una lucida coscienza
con cui assolvere al compito di mantenere la posizione. A Platea, il guerriero degno
di lode non è lo spartano Aristodemo che si lancia nella mischia per riscattare
il proprio onore (Erodoto, IX 71) ma Posidonio che rimane disciplinatamente nello
schieramento anteponendo il bene comune alla gloria personale.
L’Armamento
La
panoplia dell’oplita è costruita per rispondere a questa esigenza di combattimento.
Egli indossa un elmo di bronzo di varie fattezze, una armatura che arriva alla vita
(prima di bronzo, successivamente di lino pressato, la linothorax) e gli schinieri che arrivano
al ginocchio. Infine, il grande scudo.
Elmi: attico, calcidico,
corinzio, illirico, frigio, beotico (fotocomposizione dell’Autore su originali da
wikipedia)
Ogni
cittadino è obbligato, a procurarsi la propria armatura ed il proprio equipaggiamento,
perciò ogni oplita sceglie le fattezze, i colori e i simboli che preferisce per
adornare la propria panoplia. Ad esclusione degli opliti spartiati, tutti in possesso
di identica uniforme, gli opliti delle città greche formano delle schiere variopinte.
Come arma di offesa, l’oplita possiede sia la spada (xiphos) sia l’asta (dory).
Lo xiphos, appeso al fianco sinistro, ha una lama “a foglia di salice” allungata o leggermente lanceolata, per essere utilizzata sia di taglio sia di punta. L’impugnatura, ad una mano ed a “T”, può essere arricchita con metalli nobili e preziosi. L’impugnatura della spada di Agamennone è intarsiata d’oro, mentre quella di Achille è adornata d’argento (Omero, Iliade). L’oplita è addestrato all’uso della spada ma la usa solo in caso di estrema necessità, ad esempio dopo la rottura della falange e la perdita della sua compattezza, come ad esempio nella fase finale della battaglia delle Termopili (480 a.C.). La spada non è l’arma principale dell’oplita; del resto, l’uso della spada richiede una libertà di movimento sul fianco destro che la falange non permette.
Come arma di offesa, l’oplita possiede sia la spada (xiphos) sia l’asta (dory).
Lo xiphos, appeso al fianco sinistro, ha una lama “a foglia di salice” allungata o leggermente lanceolata, per essere utilizzata sia di taglio sia di punta. L’impugnatura, ad una mano ed a “T”, può essere arricchita con metalli nobili e preziosi. L’impugnatura della spada di Agamennone è intarsiata d’oro, mentre quella di Achille è adornata d’argento (Omero, Iliade). L’oplita è addestrato all’uso della spada ma la usa solo in caso di estrema necessità, ad esempio dopo la rottura della falange e la perdita della sua compattezza, come ad esempio nella fase finale della battaglia delle Termopili (480 a.C.). La spada non è l’arma principale dell’oplita; del resto, l’uso della spada richiede una libertà di movimento sul fianco destro che la falange non permette.
Figure armate di xiphos. Fotocomposizione
dell’Autore usando: a sinistra pittura su vaso con la Uccisione di Orfeo (foto di
Chris Goshey), a destra Combattimento con la spada, pittura su vaso del 390–380
a.C., conservato al Museo archeologico nazionale di Metaponto (usr: Jastrow da wikipedia)
L’arma
principale dell’oplita è la dory, un’asta lunga poco più di 2 metri. Diversamente dai guerrieri omerici,
l’asta non viene scagliata contro i nemici, ma viene impugnata saldamente per colpire
di punta l’avversario. E’ quindi una lunga arma dal manico robusto, da impatto e
non da lancio, usata dall’oplita per vibrare il colpo dal di sopra dello scudo oppure
dal di sotto, puntando l’arma al ventre dell’avversario.
Lo Scontro
Per
la battaglia, la massa degli opliti si dispone in schieramento compatto su otto-dodici
ranghi, occupando un terreno concordato tra le due parti, spesso pianeggiante e
libero da alberi proprio per meglio operare con la falange. Gli schieramenti si
dispongono frontalmente, poi iniziano ad avanzare lentamente per non sfaldare la
falange, cantando i peana di guerra, fino ad arrivare a circa uno stadio l’uno dall’altro.
Una tromba squilla e gli opliti, mantenendo lo schieramento, avanzano di corsa contro
l’altro, anch’esso che avanza in corsa. Le prime linee cozzano violentemente l’una
contro l’altra ed iniziano a spingere (othismos), mentre contemporaneamente gli opliti tentano di colpire gli avversari
affondando le loro lance da sopra lo scudo. Due blocchi contrapposti che spingono
uno contro l’altro e si colpiscono vicendevolmente a colpi d’asta.
Colpire e spingere, ma anche ripararsi dagli affondi nemici. Se il proprio scudo protegge la parte sinistra dell’oplita, egli tenta di riparare il suo lato destro dietro lo scudo del suo commilitone.
Colpire e spingere, ma anche ripararsi dagli affondi nemici. Se il proprio scudo protegge la parte sinistra dell’oplita, egli tenta di riparare il suo lato destro dietro lo scudo del suo commilitone.
Combattimento di opliti,
cratere del V sec. a.C., conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Foto
di Grant Mitchell, licence CC BY 2.0
Proprio
l’azione dell’oplita di ripararsi dietro lo scudo del compagno, provoca una compressione
dello schieramento verso destra. Per ovviare alla deriva, il lato destro viene sempre
occupato dagli opliti più forti, capaci di opporsi allo slittamento e tenere ferma
la falange. L’ala destra, quindi, diventa il posto d’onore e nelle falangi spartiate
viene occupato dallo stesso re. Poiché questo fenomeno si verifica in entrambi gli
schieramenti, ogni lato destro della falange viene a battersi con il rispettivo
lato sinistro del nemico. Per entrambi quindi, il lato destro spesso sopraffà quello
sinistro che si comprime ulteriormente ed indietreggia; il risultato è che i due
blocchi di falangi contrapposti iniziano lentamente a ruotare, perdendo spesso il
senso del campo di battaglia.
Il fenomeno è già noto ai contemporanei, tanto che lo stesso Tucidide lo descrive nello scontro tra Argivi e Lacedemoni (Tucidide, V, 71, 1).
Il fenomeno è già noto ai contemporanei, tanto che lo stesso Tucidide lo descrive nello scontro tra Argivi e Lacedemoni (Tucidide, V, 71, 1).
La
battaglia termina quando uno dei due schieramenti cede e deve lasciare all’avversario
il controllo dello spazio chiuso dove si svolge lo scontro. Con lo sfaldarsi della
falange sconfitta e la relativa perdita di controllo dello spazio di battaglia,
lo sconfitto indietreggia e fugge. Il vincitore non insegue lo sconfitto, perché
non deve cedere agli eccessi. Le pene inflitte dagli Dei agli Achei per gli eccessi
di ferocia a cui si abbandonarono dopo la caduta di Troia sono ancora tramandate
dagli aedi. In tal modo, almeno negli scontri tra le poleis, le guerre risparmiano grandi
stragi di greci.
Alla
fine della battaglia i vincitori spogliano i morti delle loro armi e di eventuali
oggetti preziosi, da prendere come bottino. Poi si ritirano dal campo e lasciano
che ai morti siano celebrate le esequie. Là, dove si vince la battaglia, il vincitore
innalza un trofeo.
Le mura ciclopiche
di Tirinto (foto dell’Autore)
La
disposizione a falange offre una protezione formidabile agli opliti e allo stesso
tempo ne fa uno strumento mortale per i nemici. Dal VII al V secolo a.C., la falange
oplitica domina incontrastata gli scontri tra le città greche (quelle che contrappongono
Sparta, Messene, Argo, Megara, Corinto, Atene).
Le
fanterie medie e leggere, scompaginate e disordinate, sono impotenti di fronte al
muro di scudi e di lance; armate in modo leggero, le orde barbare che tentano di
invadere l’Ellade si infrangono contro il muro compatto di scudi e di lance; le
loro armi non sono adatte a scalfire le armature oplitiche e le loro protezioni
(di vimini o di cuoio) non sono sufficienti a difendersi dalle punte delle lance.
La
superiorità tattica è assicurata alla condizione che i fianchi siano protetti e
la falange non sia scompaginata. Il compito di proteggere i fianchi della falange
è lasciato alle cavallerie, anche perché le loro eventuali cariche sarebbero comunque
inutile contro il muro di scudi. Mentre le cavallerie si scontrano sui fianchi,
la falange affronta lo schieramento nemico, cozzando contro un’altra falange o sbaragliando
le altre formazioni.
Tuttavia,
la situazione inizia a cambiare con la radicalizzazione del conflitto tra le due
potenze, con l’imposizione ad altre città ad entrare nelle proprie leghe di alleanza,
il rifiuto o la defezione, e la conseguente estensione della guerra agli ambiti
cittadini.
La
nuova necessità porta lo scontro al di fuori delle regole canoniche delle battaglie
ed inizia a portarsi su un piano diverso, dove alla dimostrazione di superiorità
nell’agone si sostituisce gradualmente la volontà dell’annientamento con ogni mezzo
dell’avversario, attraverso l’inflizione di danni materiali (la distruzione dell’agricoltura
e della flotta) e perdite umane (distruzione di città, stragi e riduzione in schiavitù).
I mutamenti che si profilano all’orizzonte iniziano a segnare la fine della falange
oplitica così come descritta, facendola evolvere gradualmente verso formazioni diverse.
Bibliografia
§ Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario,
Il Mulino 2008.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti
1985, trad. it. di Franco Ferrari
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