domenica 30 giugno 2019

L'evoluzione della falange

Dal V-IV secolo in poi, l’Ellade fu costretta a misurarsi con forme di guerra sempre nuove. I mutamenti delle condizioni politiche influirono sulla diversità di condotta che gli eserciti greci osservarono, e con essa il loro comportamento anche tattico.
Nel semplice scontro tra fanterie oplitiche su di un campo di battaglia condiviso, non era prevista nessun tipo di tattica. Gli eserciti si schieravano frontalmente ed iniziavano la spinta e lo scambio di colpi. La manovra a tenaglia o l’aggiramento sui fianchi da parte di uno schieramento non era previsto e, certo, sarebbe stato mal visto dai contemporanei, come nel caso del generale spartano Lisandro (Plutarco, Vite di Lisandro e di Silla, 7), che pur vinse molte battaglie.

Amazzonomachia del Mausoleo di Alicarnasso, 353-350 a.C., conservato al British Museum di Londra (foto Prisma Archivio).

L’aggiramento sui fianchi, quando si verificava, era dovuto ad un movimento non sciente, una azione inconsapevole frutto del normale slittamento verso destra, dovuto alla tendenza degli opliti di proteggersi con lo scudo del compagno di destra.
Oltre a proteggere i fianchi con la cavalleria, la tattica della falange antica andava poco oltre. Seppur regina incontrastata dei campi di battaglia, poco a poco i generali iniziarono ad individuarne alcuni punti deboli.
Un primo e significativo esempio dell’evoluzione delle tattiche è rappresentato dalla battaglia di Delio, nel 424 a.C., tra Ateniesi e Tebani durante la Guerra del Peloponneso. In questo scontro, il generale tebano risolse la battaglia grazie al sapiente utilizzo della cavalleria come riserva tattica e della variazione nello schieramento oplitico che porterà all’introduzione della falange obliqua. L’aumentato numero dei ranghi della falange oplitica tebana fu sufficiente a spezzare la resistenza della falange ateniese nel rispettivo settore di scontro.
In questa battaglia, per contrastare la forza dello schieramento avversario, il generale tebano Pagonda decise di rafforzare la sua ala destra, aumentando il numero dei ranghi a 25 file. Per completare lo schieramento e uguagliare la lunghezza di quello avversario, dispose sull’ala sinistra, già più debole, le truppe dotate di armamento leggero.
Pagonda riuscì a disporsi sulla sommità di una collina all’insaputa degli Ateniesi. Quando questi se ne accorsero, si disposero frettolosamente, perché colti di sorpresa e su un terreno non adatto agli scontri oplitici, sulle usuali otto file.
Con l’avvio dello scontro, la rafforzata ala destra tebana respinse lo schieramento ateniese mentre all’estremo opposto l’indebolita ala sinistra tebana venne sopraffatta dalla più forte ala destra ateniese. A quel punto Pagonda decise inviare due squadroni di cavalleria a supporto dell’ala sinistra tebana che colsero di sorpresa gli opiti ateniesi. Nello scontro perse la vita lo stesso generale Ateniese Ippocrate, mentre l’intera ala destra di diede alla fuga. Il centro dello schieramento ateniese vedendo respinta sia l’ala destra (dalla cavalleria) sia l’ala sinistra (dalla rafforzata ala destra tebana) si persero d’animo e si ritirarono a loro volta.

Le fasi della battaglia di Delio (424 a.C.) tra ateniesi e tebani. Ricostruzione ed animazione dell’Autore

Un punto debole della falange fu individuato proprio in ciò che era la sua forza. La falange era una struttura rigida, pesante, lenta. Proprio da questa osservazione e conscio dell’impossibilità di battere la falange spartana, il generale ateniese Ificrate pensò di attaccare la falange spartana senza ingaggiarvi mai lo scontro diretto. Egli utilizzò un corpo agile e veloce, dotato esclusivamente di armi da lancio. Questo corpo avrebbe sottoposto la falange avversaria ad un bersagliamento continuo con i dardi senza mai entrarvi in contatto.
Il corpo in questione fu chiamato peltasti, dal nome del loro scudo, la pelta. Corpo di schermagliatori, il loro armamento leggero non prevedeva difese individuali, se non lo scudo in cuoio a forma di mezzaluna, la pelta, e a volte un elmo di tipo beotico che permetteva una visione superiore a quella degli elmi corinzi in dotazione agli spartani. Il loro armamento comprendeva solo un certo numero di giavellotti.
La tattica era quella di avvicinarsi alla falange, bersagliarla e ritirarsi continuamente, senza mai entrare in contatto con la stessa; viceversa essa sarebbe uscita distrutta qualora la falange spartana l’avesse agganciata.
Ificrate utilizzò per la prima volta questa tattica nella battaglia del Lecheo (391 a.C.), durante la Guerra di Corinto.
In questa battaglia, una mora di opliti spartiati venne assalita nella retroguardia più volte dai peltasti i quali fuggivano, più veloci degli opliti perché privi dell’armatura, ogni qual volta gli spartiati cercavano di ingaggiare battaglia. Continuamente bersagliati, gli spartiati furono costretti prima a rifugiarsi su di una collina per poi imbarcarsi rovinosamente per fuggire. Nella battaglia, della mora di 600 opliti, oltre 250 perirono.

Combattimento di guerrieri e Dei, cratere del V sec. a.C., conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Foto di Grant Mitchell.

Il secondo punto debole fu individuato dal generale tebano Epaminonda nello slittamento verso destra e nella rotazione antioraria del fronte, che probabilmente fu alla base della modifica dello schieramento tebano sul campo di battaglia di Leuttra, nel 371 a.C.
In questa battaglia che oppose spartani e tebani, il beotarca Epaminonda riprese la modifica apportata da Pagonda e la ribaltò, apportando una sostanziale innovazione nel proprio schieramento.
L’esercito spartano, come al solito, era ordinato di fronte al nemico il cui fianco destro era formato dalla parte più forte degli opliti. Il re spartano Cleombroto ed i 700 cittadini spartiati erano schierati su questo lato della falange.
Epaminonda, partendo dalla convinzione che una falange più profonda avrebbe potuto sconfiggere la falange spartana, decise di contrapporre all’ala destra degli spartiati la sua ala più forte, puntando a contrapporre alla parte più forte avversaria la sua parte più forte, per annientarla e creare scompiglio nell’intero schieramento avversario.
Per metterlo in pratica, ebbe bisogno di rafforzare la sua ala sinistra, disponendo quindi la sua fanteria a scalare, da destra verso sinistra. La profondità dello schieramento tebano andò dai soliti 8 ranghi dell’ala destra (ora la più debole) fino ad una profondità di 50 ranghi all’estremità sinistra. In tal modo avrebbe contrastato il valore dell’ala destra spartana con il numero dei ranghi tebani.
A rafforzare la sua ala sinistra, Epaminonda vi affiancò il Battaglione Sacro, 300 tebani addestrati all’uso delle armi, non meno avvezzi degli spartiati stessi. Allo stesso tempo, allo schieramento destro ordinò di rimanere arretrati e di non ingaggiare battaglia.
La tattica funzionò. Dopo gli scontri tra le cavallerie, dove quella tebana ebbe la meglio, l’ala sinistra tebana sbaragliò le truppe scelte spartane. Cleombroto ed il suo settore furono costretti a indietreggiare per la superiorità della spinta tebana. Tuttavia, il re spartano aveva notato l’enorme schieramento sull’ala sinistra tebana e mandò il centro dello schieramento a rinforzare l’ala sinistra spartana. Accortosi della possibilità di accerchiamento, il comandante dell’ala sinistra Pelopida, ordinò uno spostamento della falange per contrastare l’arrivo degli spartani. L’azione venne bloccata, e gli spartani dovettero cedere il campo.
Nello scontro, perirono 400 spartiati e lo stesso re.


Le fasi della battaglia di Leuttra (371 a.C.). Ricostruzione ed animazione dell’Autore

La tecnica della falange obliqua venne riutilizzata e perfezionata fino alla battaglia di Mantinea (362 a.C.) che vide i Tebani e gli Argivi opporsi ai contingenti di Atene, Sparta e Mantinea. Il rafforzamento dell’ala sinistra portò nuovamente alla vittoria dell’esercito di Epaminonda, che però vi perse la vita.
Tuttavia, l’aumentare dei ranghi richiede una modifica dell’armamento dell’oplita. Come può, un fante distante dieci o più file dal nemico, colpirlo o aiutare gli amici? Domanda, questa, che sicuramente si posero anche i contemporanei di Epaminonda. Lo stesso Ciro il Grande se lo chiese, secondo Senofonte (Ciropedia, VI, 3, 22).
La risposta risiede nell’utilizzo di una lancia più lunga rispetto a quella normalmente in dotazione agli opliti, in modo da aumentare il numero di punte che escono dal proprio schieramento. Non certo tutti i 50 ranghi, ma in numero crescente con l’aumentare della lunghezza dell’asta. Ma un’asta lunga necessita non più di una mano per sorreggerla, ma di entrambe. Cosa che il normale oplita non può fare, perché la sua sinistra deve impugnare il pesante scudo argivo.
Con l’aumentare della lunghezza dell’asta, anche lo scudo diventa più piccolo (scudo beotico) e la mano sinistra può essere impiegata anche per tenere l’asta.
Con l’introduzione della falange obliqua, nell’esercito tebano si ha una progressiva riduzione della grandezza dello scudo ed un aumento della lunghezza dell’asta.
La strada è aperta alla falange macedone, che accentua i caratteri della riduzione dello scudo (portato appeso al collo) e all’allungamento delle aste (dai 4 ai 6 metri).

Bibliografia

- Plutarco, Vite di Lisandro e di Silla, BUR 2001, trad. it. di F. M. Muccioli e L. Ghilli
- Senofonte, Ciropedia , BUR 2001, trad. it. di Franco Ferrari

domenica 23 giugno 2019

La falange oplitica

La caratteristica del fante greco, quella da cui prende il nome l’oplita, è il grande scudo (aspis) argivo, l’hoplon. E’ infatti nella città di Argo che viene introdotta questa innovazione ed è qui che per la prima volta i guerrieri si armano con il pesante scudo. Ma più dello scudo stesso, è l’impugnatura che lo contraddistingue dai precedenti. Questa prevede una imbracciatura (porpax) ed una presa (antilabé). Con questo tipo di impugnatura è possibile tenere lo scudo in un modo più efficace, riuscendo a coprire non solo la parte sinistra di chi lo impugna ma anche il fianco destro di chi sta alla propria sinistra.
Diversamente dagli eroi omerici, poiché lo scudo serve a coprire anche il commilitone, l’oplita greco non può più sbarazzarsene, anche se volesse farlo per affrontare meglio l’avversario e per essere più libero nel colpire. L’oplita deve continuare a tenerlo, in ogni circostanza, per garantire la compattezza della formazione.
La forza dello schieramento greco è ora, non il valore del singolo ed il suo furore come nell’età arcaica, ma la coesione della linea.
Hoplon, armatura e schinieri (fotocomposizione dell’Autore su originali da wikipedia)

Per rimanere a piè fermo all’interno dello schieramento, per mantenere il proprio posto nella fila a qualunque costo, l’oplita deve rispettare una ferrea disciplina, pena lo sfaldamento dell’intero schieramento. Nella battaglia, allora, cambia lo spirito del soldato: all’ebrezza della lotta del guerriero in preda all’invasamento che si getta a capofitto tra le schiere nemiche facendone strage, si sostituisce il rigore della totale padronanza di sé. L’oplita deve possedere una lucida coscienza con cui assolvere al compito di mantenere la posizione. A Platea, il guerriero degno di lode non è lo spartano Aristodemo che si lancia nella mischia per riscattare il proprio onore (Erodoto, IX 71) ma Posidonio che rimane disciplinatamente nello schieramento anteponendo il bene comune alla gloria personale.

L’Armamento

La panoplia dell’oplita è costruita per rispondere a questa esigenza di combattimento. Egli indossa un elmo di bronzo di varie fattezze, una armatura che arriva alla vita (prima di bronzo, successivamente di lino pressato, la linothorax) e gli schinieri che arrivano al ginocchio. Infine, il grande scudo.
Elmi: attico, calcidico, corinzio, illirico, frigio, beotico (fotocomposizione dell’Autore su originali da wikipedia)

Ogni cittadino è obbligato, a procurarsi la propria armatura ed il proprio equipaggiamento, perciò ogni oplita sceglie le fattezze, i colori e i simboli che preferisce per adornare la propria panoplia. Ad esclusione degli opliti spartiati, tutti in possesso di identica uniforme, gli opliti delle città greche formano delle schiere variopinte.
Come arma di offesa, l’oplita possiede sia la spada (
xiphos) sia l’asta (dory).
Lo
xiphos, appeso al fianco sinistro, ha una lama “a foglia di salice” allungata o leggermente lanceolata, per essere utilizzata sia di taglio sia di punta. L’impugnatura, ad una mano ed a “T”, può essere arricchita con metalli nobili e preziosi. L’impugnatura della spada di Agamennone è intarsiata d’oro, mentre quella di Achille è adornata d’argento (Omero, Iliade). L’oplita è addestrato all’uso della spada ma la usa solo in caso di estrema necessità, ad esempio dopo la rottura della falange e la perdita della sua compattezza, come ad esempio nella fase finale della battaglia delle Termopili (480 a.C.). La spada non è l’arma principale dell’oplita; del resto, l’uso della spada richiede una libertà di movimento sul fianco destro che la falange non permette.
Figure armate di xiphos. Fotocomposizione dell’Autore usando: a sinistra pittura su vaso con la Uccisione di Orfeo (foto di Chris Goshey), a destra Combattimento con la spada, pittura su vaso del 390–380 a.C., conservato al Museo archeologico nazionale di Metaponto (usr: Jastrow da wikipedia)

L’arma principale dell’oplita è la dory, un’asta lunga poco più di 2 metri. Diversamente dai guerrieri omerici, l’asta non viene scagliata contro i nemici, ma viene impugnata saldamente per colpire di punta l’avversario. E’ quindi una lunga arma dal manico robusto, da impatto e non da lancio, usata dall’oplita per vibrare il colpo dal di sopra dello scudo oppure dal di sotto, puntando l’arma al ventre dell’avversario.

Lo Scontro

Per la battaglia, la massa degli opliti si dispone in schieramento compatto su otto-dodici ranghi, occupando un terreno concordato tra le due parti, spesso pianeggiante e libero da alberi proprio per meglio operare con la falange. Gli schieramenti si dispongono frontalmente, poi iniziano ad avanzare lentamente per non sfaldare la falange, cantando i peana di guerra, fino ad arrivare a circa uno stadio l’uno dall’altro. Una tromba squilla e gli opliti, mantenendo lo schieramento, avanzano di corsa contro l’altro, anch’esso che avanza in corsa. Le prime linee cozzano violentemente l’una contro l’altra ed iniziano a spingere (othismos), mentre contemporaneamente gli opliti tentano di colpire gli avversari affondando le loro lance da sopra lo scudo. Due blocchi contrapposti che spingono uno contro l’altro e si colpiscono vicendevolmente a colpi d’asta.
Colpire e spingere, ma anche ripararsi dagli affondi nemici. Se il proprio scudo protegge la parte sinistra dell’oplita, egli tenta di riparare il suo lato destro dietro lo scudo del suo commilitone.
Combattimento di opliti, cratere del V sec. a.C., conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Foto di Grant Mitchell, licence CC BY 2.0

Proprio l’azione dell’oplita di ripararsi dietro lo scudo del compagno, provoca una compressione dello schieramento verso destra. Per ovviare alla deriva, il lato destro viene sempre occupato dagli opliti più forti, capaci di opporsi allo slittamento e tenere ferma la falange. L’ala destra, quindi, diventa il posto d’onore e nelle falangi spartiate viene occupato dallo stesso re. Poiché questo fenomeno si verifica in entrambi gli schieramenti, ogni lato destro della falange viene a battersi con il rispettivo lato sinistro del nemico. Per entrambi quindi, il lato destro spesso sopraffà quello sinistro che si comprime ulteriormente ed indietreggia; il risultato è che i due blocchi di falangi contrapposti iniziano lentamente a ruotare, perdendo spesso il senso del campo di battaglia.
Il fenomeno è già noto ai contemporanei, tanto che lo stesso Tucidide lo descrive nello scontro tra Argivi e Lacedemoni (Tucidide, V, 71, 1).
La battaglia termina quando uno dei due schieramenti cede e deve lasciare all’avversario il controllo dello spazio chiuso dove si svolge lo scontro. Con lo sfaldarsi della falange sconfitta e la relativa perdita di controllo dello spazio di battaglia, lo sconfitto indietreggia e fugge. Il vincitore non insegue lo sconfitto, perché non deve cedere agli eccessi. Le pene inflitte dagli Dei agli Achei per gli eccessi di ferocia a cui si abbandonarono dopo la caduta di Troia sono ancora tramandate dagli aedi. In tal modo, almeno negli scontri tra le poleis, le guerre risparmiano grandi stragi di greci.
Alla fine della battaglia i vincitori spogliano i morti delle loro armi e di eventuali oggetti preziosi, da prendere come bottino. Poi si ritirano dal campo e lasciano che ai morti siano celebrate le esequie. Là, dove si vince la battaglia, il vincitore innalza un trofeo.
Le mura ciclopiche di Tirinto (foto dell’Autore)

La disposizione a falange offre una protezione formidabile agli opliti e allo stesso tempo ne fa uno strumento mortale per i nemici. Dal VII al V secolo a.C., la falange oplitica domina incontrastata gli scontri tra le città greche (quelle che contrappongono Sparta, Messene, Argo, Megara, Corinto, Atene).
Le fanterie medie e leggere, scompaginate e disordinate, sono impotenti di fronte al muro di scudi e di lance; armate in modo leggero, le orde barbare che tentano di invadere l’Ellade si infrangono contro il muro compatto di scudi e di lance; le loro armi non sono adatte a scalfire le armature oplitiche e le loro protezioni (di vimini o di cuoio) non sono sufficienti a difendersi dalle punte delle lance.
La superiorità tattica è assicurata alla condizione che i fianchi siano protetti e la falange non sia scompaginata. Il compito di proteggere i fianchi della falange è lasciato alle cavallerie, anche perché le loro eventuali cariche sarebbero comunque inutile contro il muro di scudi. Mentre le cavallerie si scontrano sui fianchi, la falange affronta lo schieramento nemico, cozzando contro un’altra falange o sbaragliando le altre formazioni.
Tuttavia, la situazione inizia a cambiare con la radicalizzazione del conflitto tra le due potenze, con l’imposizione ad altre città ad entrare nelle proprie leghe di alleanza, il rifiuto o la defezione, e la conseguente estensione della guerra agli ambiti cittadini.
La nuova necessità porta lo scontro al di fuori delle regole canoniche delle battaglie ed inizia a portarsi su un piano diverso, dove alla dimostrazione di superiorità nell’agone si sostituisce gradualmente la volontà dell’annientamento con ogni mezzo dell’avversario, attraverso l’inflizione di danni materiali (la distruzione dell’agricoltura e della flotta) e perdite umane (distruzione di città, stragi e riduzione in schiavitù). I mutamenti che si profilano all’orizzonte iniziano a segnare la fine della falange oplitica così come descritta, facendola evolvere gradualmente verso formazioni diverse.

Bibliografia

§  Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino 2008.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti 1985, trad. it. di Franco Ferrari

domenica 16 giugno 2019

Dal guerriero all'oplita

Nella Grecia micenea, l’ethos del combattente è quello del guerriero che affronta il nemico nel corpo a corpo, viso a viso, leale ed onesto in cui mette a confronto con l’avversario la sola forza ed il solo valore fisico. Un guerriero quasi solitario, che spicca per coraggio su tutti gli altri. La folla degli eserciti è solo un paesaggio in cui l’azione dell’eroe rifulge da protagonista.
Combattimento di opliti, cratere del V sec. a.C., conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene (foto su wikipedia licence CC BY 2.0 )
Attingendo ad una fonte sufficientemente antica come Omero, troviamo Achille ed Aiace che combattono circondati da una mischia anonima, così come Enea ed Ettore.
Nella società monarchica micenea, fondata sull’uso delle armi, tutta la vita sociale è scandita dal re e dall’aristocrazia, il vanax e gli heros, che sono i protagonisti nominati delle battaglie.
Il resto della popolazione e dei servi, rimane anonima combattente sullo sfondo.
Eppure, accanto all’esaltazione della lealtà eroica, compare, e non in secondo piano, colui che nella guerra non usa la forza ma preferisce battere il nemico con l’astuzia e l’inganno. Ulisse è colui che sconfiggerà Troia con l’inganno, colui che si intrufola nei campi avversari per spiarli, colui a cui gli stessi Greci hanno conferito l’onore di possedere le armi di Achille, perché ritenuto più valoroso del forte Aiace. Nonostante l’esaltazione dell’azione del singolo, del suo coraggio e della sua onestà, l’epica della guerra è comunque fortemente legata allo stratagemma, all’inganno, che il guerriero sa mettere in campo per sopravvivere e per sopraffare il nemico.
Cratere dei guerrieri Shardana, pittura su cratere da Micene, tarda età del bronzo, XII sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Atene, N. 1246 (usr: Zde su Wikipedia)

Non a caso Omero, nelle innumerevoli azioni individuali pericolose, affianca sempre a Diomede, il guerriero forte e coraggioso, Ulisse, il guerriero ingegnoso ed arguto. L’ethos della guerra, già nell’VIII secolo di Omero, è la sintesi delle due caratteristiche.
Ancora in Omero, Agamennone non ha il potere assoluto sugli altri re e non può imporre la sua decisione su Achille o sull’assemblea, né Ulisse può appellarsi alle leggi scritte o all’assemblea del popolo per rivendicare il trono di fronte ai migliori figli di Itaca, quelli che saranno la futura aristocrazia. Agamennone e Ulisse sono capi militari privi di poteri assoluti che devono dividere il bottino con gli altri; chi divide è appunto l’assemblea. Per questo nessuno dei due è più ormai un re miceneo, e Omero ci racconta, facendo indossare ai suoi protagonisti vesti micenee che più non appartengono loro, le fasi storiche in cui si viene formando il potere oligarchico.
Combattimento tra opliti, pittura su vaso, V sec. a.C., conservato al Museo Etrusco Guarnacci di Volterra.

Il cambiamento delle strutture sociali, che porta dalla monarchia micenea alla oligarchia delle poleis greche, modella anche le nuove forme delle strutture militari.
Se nell’età micenea è il valore del re che viene narrato e che fonda l’etica guerriera dello scontro leale, il lento passaggio a strutture politiche allargate, sottintese nei poemi omerici, impone l’allargamento dei protagonisti degli scontri militari.
Nel momento in cui nelle decisioni politiche al re viene sostituita un’assemblea di uguali (i cittadini liberi possidenti di terre), anche nel campo di battaglia all’eroe singolo viene sostituito una schiera di uguali, formata da tutti quelli capaci di acquistare l’armatura necessaria.
La guerra sarà affidata ora, a partire dal VII secolo, ad una schiera compatta di uomini, uniti fianco a fianco l’uno dell’altro, in ranghi serrati; schiere cittadine che amministrano la città in tempo di pace e la difendono in tempo di guerra: la falange oplitica.
Combattimento tra opliti sull’Olpe Chigi conservata presso il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Roma. Immagine tratta da J. M. Roberts, Kelet-Ázsia és a klasszikus Görögország (usr: Szilas su wikipedia)


Bibliografia

§  Fausto Codino, in Iliade, Garzanti, Milano 1999.
§  Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino 2008.

giovedì 6 giugno 2019

Bibliografia


Molti degli articoli presenti hanno una bibliografia in fondo alla pagina. Sono i libri che sono stati consultati per scrivere l’articolo e che sono particolarmente utili per la comprensione sia dell’argomento trattato sia del contesto generale a cui l’articolo si riferisce.

Nel presente articolo ho voluto raccogliere tutta la bibliografia utilizzata. E’, dunque, un articolo in divenire.
Man mano che verranno pubblicati articoli, anche la relativa bibliografia qui contenuta andrà crescendo.
Ovviamente non posso e non voglio trascurare i suggerimenti dei lettori che, spero, vorranno proporre nei commenti del presente articolo.
Una sola clausola ai suggerimenti:
1) la fonte suggerita deve essere facilmente rintracciabile, in libreria o in biblioteca;
2) si deve fornire il passaggio puntuale a cui ci si deve riferire (ad esempio il capitolo o il paragrafo che sarebbe utile consultare);
3) un brevissimo commento al libro o alla parte rilevante.
Inoltre, mi riservo la facoltà di contattare il suggeritore per chiedere ulteriori informazioni e dettagli.
Non sto scoraggiando i suggerimenti, anzi, ma cerco solo di circostanziarli. La bibliografia su determinati argomenti è sconfinata (si pensi all’esercito romano), quindi vorrei evitare che il tutto si trasformi in un lungo elenco, che con l’andar del tempo perde la sua utilità.

Fonti primarie

STORIA ITALICA E ROMANA

§  Polibio, Storie Libri V-VI, Vol. 3, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli 2002; trad. it. dal greco di M. Mari.
§  Tito Livio, Storia di Roma. Libri 7-8, Garzanti 2012.
§  Tito Livio, Storia di Roma. Libri 9-10, Garzanti 2012.
§  Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, Einaudi, Torino 1997, trad. it. Antonio Corso e Elisa Romano.
§  Vegezio, L’arte della Guerra (Epitoma Rei Militaris) a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Oscar Mondadori 2001.

STORIA GRECA E PERSIANA

§  Erodoto, Le Storie Libri III, IV, Garzanti 1990; trad. it. dal greco di Fulvio Barberis .
§  Erodoto, Le Storie Libri V, VI, VII, Garzanti 1990; trad. it. dal greco di Fulvio Barberis.
§  Omero, Iliade, Garzanti, Milano 1999; trad. it. dal greco di Giuseppe Tonna.
§  Plutarco, Vite di Lisandro e di Silla, BUR 2001, trad. it. di F. M. Muccioli e L. Ghilli.
§  Senofonte, Anabasi, Garzanti 1994; trad. it dal greco di Andrea Barabino.
§  Senofonte, Ciropedia, BUR 2001, trad. it. di Franco Ferrari.
§  Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti 1985, trad. it. di Franco Ferrari.

Opere di carattere generale

ROMANI

§  Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino 2008.
§  Livio Zerbini, Storia dell’esercito romano, Odoya 2018.
§  Giuseppe Cascarino, L’esercito Romano voll I, II, Ed. Il Cerchio 2007.
§  David J. Breeze, L’esercito romano, Il Mulino 2019.
§  Yann Le Bohec, L’esercito romano, Carocci 2001.
§  Russo Flavio, Russo Ferruccio, Piccola, potente e maneggevole, Archeo, n 311, gennaio 2011.

ITALICI

- Giacomo Devoto, Gli antichi italici, Vallecchi, 1931.
- Delia Guasco, Popoli italici – L’Italia prima di Roma, Giunti editore 2006.
- Mariavittoria Antico Gallina (a cura di), Culture della prima Italia, Silvana Editore 2005.
Mariavittoria Antico Gallina, Popoli italici e culture regionali, Editore Silvana 1998, ISBN 9788882150785.
- F. Pesando (a cura di), L’ Italia antica. Culture e forme del popolamento nel 1 millennio a.C., Carocci 2005.
- Francisco Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa, Il Mulino, Bologna 1997.
- Gabriele Esposito, I guerrieri dell’Italia antica. Gli eserciti italici dalla fondazione di Roma ad Annibale, LEG Edizioni 2018.

POPOLI IITALICI

- E. T. Salmon, Il Sannio ed i Sanniti, Einaudi, Torino 1995.
- Mario Torelli, Storia degli etruschi, Laterza 2005.
- Raymond Bloch, Gli Etruschi, Il Saggiatore Economici, 1994.
- Maria Teresa Grassi, I Celti in Italia, Longanesi, 2009.
Leonardo D’Addabbo, Lo spirito guerriero degli antichi Apuli, in Japigia Rivista Pugliese di Archeologia, Anno II, Fasc. III, Brindisi 1931.
Vito A. Sirago, L’Apulia dall’indipendenza all’occupazione romana in Études Étrusco-Italiques du Recueil de Travaux d’Histoire et de Philologie 4a Sèrie, Fascicule 31 Louvain 1963.

domenica 2 giugno 2019

Catapulte romane

Graecia capta ferum victorem cepit [Orazio].
Quando nel 146 a.C. Roma si annetté le polis greche, ne assorbì anche la cultura. Oltre all’arte, anche le scienze e le tecniche divennero patrimonio dei romani.
Schieramento delle catapulte romane

Dalla catapulta greca…

Nel testo Belopoeica del I sec. d.C., Erone di Alessandria sostiene che l’antenato di tutte le catapulte fu il gastraphetes. Questa arma (dall’antico greco γαστραφέτης, cioè “arco da pancia”), usata dai greci, era una balestra che veniva caricata utilizzando il peso del corpo per tendere l’arco, appoggiandola sulla pancia.
Fu Zopiro di Taranto, scienziato della scuola pitagorica, a costruire quest’arma, in occasione dell’assedio di Cuma nel 421 a.C.
Nel 375 a.C., durante le guerre tra Siracusa e Cartagine, venne sviluppata una versione potenziata del gastraphetes: l’oxybeles. Essendo troppo grande per essere portato a braccia, lo strumento era montato su un telaio che poggiava a terra, permettendo una maggiore accuratezza del tiro. L’arco veniva teso grazie a un meccanismo a gancio messo in funzione da due genieri.
Così fissata, l’arma venne impiegata anche sulle navi siracusane.
Parallelamente all’incremento delle dimensioni dell’arma, anche la lunghezza dei dardi crebbe.
Tuttavia, gli scienziati greci erano consci dei limiti strutturali e materiali dell’arco composito.
Così, quando Filippo II di Macedonia ebbe la necessità di aumentare la gittata utile del tiro, il gruppo di studiosi che doveva sviluppare e perfezionare l’arma decise, nel 340 a.C., di applicare all’
oxybeles un sistema a torsione come meccanismo di propulsione, già conosciuto da circa 10 anni.
Nacquero la ballistes (balista, dal greco ballein cioè lanciare, gettare) e la katapeltes (catapulta, dal greco kata pelta che significa “attraverso lo scudo”), ovvero delle pesanti armi da getto a torsione.
La balista greca di grosse dimensioni aveva una gittata utile di circa 650 metri e scagliava dardi della lunghezza di 3 cubiti (132 cm), che potevano essere incendiari.
Il maggior risultato nello sviluppo dell’artiglieria, venne ottenuto nel III secolo a.C. dai meccanici dell’Arsenale di Alessandria, quando trovarono la forma ottimale delle macchine da getto.
La domanda che si posero fu: quale dimensione deve avere una macchina per scagliare un proietto di date dimensioni ad una certa distanza? Il problema era quello di determinare quale fosse l’elemento della macchina che fungesse da
modulo per tutto il resto, cioè quale fosse la dimensione di quel particolare elemento con cui costruire proporzionalmente l’intera macchina.
La risposta fu trovata nella foramina, cioè nel diametro dei due buchi che fanno passare le molle all’interno dei peritreti. A partire da quel valore, assunto ad unità base della macchina, tutta questa sarebbe stata costruita secondo proporzioni definite.
In particolare, per le dimensioni del dardo, il rapporto tra il diametro della
foramina e la lunghezza del dardo doveva essere di 1/9.

… a quella romana

I romani trovarono particolarmente utili le due invenzioni greche.
Serventi in uniforme di età augustea

Una volta acquisitane la tecnologia, partendo da questa, gli ingegneri romani svilupparono dei modelli più piccoli per poterli trasportare più facilmente.
Una prima riduzione fu lo scorpio che, intorno al 50 a.C., fece la comparsa sui campi di battaglia.
Lo scorpione aveva dardi della lunghezza di 3 spanne (69 cm), la sua gettata utile era di 400 metri mentre il tiro diretto di precisione arrivava fino a circa 100 metri.
Le baliste e gli scorpioni venivano posizionati in batterie sulle alture per sfoltire e fiaccare le truppe avversarie in ranghi serrati. Queste armi furono largamente impiegate nelle campagne di Gallia e di Germania, in particolare da Giulio Cesare durante l’assedio di Avarico (52 a.C.).
In età repubblicana ed imperiale, ogni centuria aveva un numero definito di baliste. Secondo Publio Flavio Vegezio Renato (cfr. Epitoma rei militaris, II, 25) ogni legione ne aveva 55, servita ciascuna da 11 uomini.
La dimensione ridotta permise all’arma di essere montata direttamente sui carri (carrobalista) ed utilizzata senza che dovesse essere posizionata a terra. L’uso della carrobalista è testimoniata sulla Colonna Traiana, nelle scene 31, 46, 47, 48 della divisione di Salomon Reinach.
Serventi in uniforme appena successiva alla riforma mariana

A partire dallo scorpio, intorno al 100 d.C. venne realizzato un altro tipo di balista: la cheiroballistra, realizzata completamente in metallo, matasse di torsione incluse. Questa scelta costruttiva permise di ridurne le dimensioni senza penalizzare le prestazioni dell’arma. Di questa, ne vennero costruite anche delle tipologie trasportabili a mano, dette manuballiste.

La confusione del nome

Catapulta o Balista? Che differenza vi è tra le due?
Purtroppo, nel tempo, si è parlato alternativamente di catapulte (da non confondere con l’onagro) come macchine che lanciano sassi e dardi. Senza arrivare al medioevo, la confusione, o meglio, il disaccordo esiste già in epoca romana.
Se da un lato Vitruvio afferma, nel suo De Architectura (circa 15 a.C.), che:
“Catapultas quibus sagittae […] Balistas quibus saxa emittuntur.”
cioè “la catapulta lancia i dardi la balista lancia le pietre”, alcuni anni prima Giulio Cesare, nel De bello civili (Libro I, circa 45 a.C.), chiamò catapulta la macchina che lancia i sassi.
Nella classificazione di Vitruvio, lo scorpione è una piccola catapulta, che dunque lancia i dardi.

De Architectura

Passerò ora a spiegare i principi modulari sulla base dei quali è possibile realizzare quegli apparecchi che sono stati inventati per difendersi dal pericolo e che rispondono alla necessità di garantire la sicurezza, ovvero gli scorpioni e le baliste.
Le misure di questi apparecchi sono calcolate a partire da una lunghezza data, quella che della freccia che l’apparecchio in questione deve lanciare, e alla nona parte di tale lunghezza viene fatto corrispondere il diametro delle aperture sul telaio, attraverso cui si tendono le fibre attorcigliate che sostengono i bracci.
[Vitruvio, De Architectura, Libro X, 10, 1]

Funzionamento fisico

Il principio fisico della catapulta si basa sulla trasformazione dell’energia potenziale di torsione di due fasci di funi in energia cinetica di un carrello collegato.

Il proietto, sia esso una palla in pietra sia esso un dardo, viene trascinato in avanti dalla slitta. La slitta è collegata al centro di una corda arciera, le cui due estremità sono collegate a due aste sporgenti (braccetti, bracchium), poste nell’estremità anteriore della balista, al termine della guida orizzontale ove scorre il proietto. Le due aste, orizzontali, sono fissate in prossimità di una loro estremità, all’interno di un fascio di funi verticali, preventivamente torte. Spingendo indietro una estremità dell’asta, si esegue una torsione del fascio di funi verticale. E’ questo fascio di funi che immagazzina energia potenziale di torsione.
Quindi, facendo indietreggiare la slitta, le aste torcono ulteriormente il fascio di funi. La slitta viene spinta all’indietro fino alla fine della guida, e li sboccata con un meccanismo di blocco.
Sbloccando la slitta, l’energia potenziale di torsione delle funi viene trasferita cinematicamente alla slitta, che spinge il proietto.

Le parti della catapulta

STRUTTURA DELLA MACCHINA

§  Kambestrion (o capitulum): il quadrato anteriore che ospita le matasse. La forma del capitulum definisce una differenza strutturale tra la catapulta e la balista. Nella catapulta, il capitulum è formato da due assi orizzontali (genericamente detti peritreti), uno superiore (kamarion, in genere arcuata, dove sono posizionati i due fori, foraminae, in cui passano le matasse di tendini) ed uno inferiore (klimakion) e da assi verticali. Gli assi verticali sono tre: i due estremi detti parastaticae che circondano le due matasse di tendini attorcigliati ed uno centrale (intervallum) dotato di un foro per far uscire il proietto. La balista ha invece due semiquadrati, uno per ogni fascio. Ognuno dei due semiquadrati è formato dai due elementi orizzontali (scutulae) e da due montanti verticali (parastatae). I due semiquadrati sono collegati tra loro mediante aste, dette regulae.

Le parti che compongono il Capitulum

§  Modioli: le ralle forate che permettono di precaricare la matassa e di fermarla con spine nella posizione desiderata.
§  Bracchia: i bracci che ruotando portano energia al porta-sasso tramite due corde.
§  Canaliculus (nella catapulta) / climacis (nella balista): il pezzo fisso su cui scorre il cassetto che spinge il proietto.
§  Canalis fundus (nella catapulta) / chelonium (nella balista): la slitta collegata con dei cavi ai bracchia.
§  Epitoxis: gancio di attacco della corda arciera al cassetto.
§  Sucula: argano con cui si trascina all’indietro il cassetto.
§  Manucla: meccanismo di sblocco del gancio dal cassetto.

Struttura della catapulta

STRUTTURA DEL SOSTEGNO

§  Basis: le traverse della base.
§  Columella: il ritto unito al sostegno centrale che poteva essere alzato o abbassato.
§  Caput columellae: l’articolazione superiore della columella.
§  Posterior minor columna: il sostegno posteriore per il Canaliculus , che definiva l’alzo.
§  Capreolus: la controventatura della colonna centrale.
§  Plinthos: la parte del telaio, centrale e di sostegno.
§  Subiectio: il controvento posteriore sul quale veniva regolata la posterior minor columna per regolare l’alzo.

Le parti del sostegno della catapulta

Figurini

Hat 8035 (1/72) – 4 stampi, ciascuno con 1 catapulta (si noti la forma del capitulum) e 3 serventi. Ogni stampo contiene anche 1 signifer, 4 hastati e 4 velites.

Bibliografia

§  Russo Flavio, Russo Ferruccio, Piccola, potente e maneggevole, Archeo, n 311, gennaio 2011.
§  Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, Einaudi, Torino 1997, trad. it. Antonio Corso e Elisa Romano.
§  Vegezio, L’arte della Guerra (Epitoma Rei Militaris) a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Oscar Mondadori, Classici Greci e Latini con Testo a fronte, 2001.
§  Pier Gabriele Molari, Mirko Maraldi, La ricostruzione della Balista di Vitruvio, Quinta Giornata di Studio Ettore Funaioli, Bologna, 15 luglio 2011.
§  Pier Gabriele Molari, Andreas Canzler, Ricostruzione della balista imperiale Romana, Sesta Giornata di Studio Ettore Funaioli, Bologna, 16 luglio 2012.