La falange macedone aveva acquisito nel corso degli anni, e
grazie alle innovazioni di Filippo il Macedone, un alone di invincibilità. Non
solo gli immensi eserciti persiani erano caduti sotto la tenaglia macedone
manovrata dal temerario Alessandro, che comunque avevano già dimostrato una
sostanziale inferiorità nei confronti dei Greci in più di una occasione, da
Maratona a Platea, a Cunassa (401 a.C.) dove l’unica formazione vincitrice
dell’usurpatore Ciro il Giovane era stato proprio il contingente oplitico
greco. Ma anche la falange oplitica aveva dovuto soccombere a quella macedone.
E quest’ultima si era così ritrovata senza rivali.
L’Irrigidimento
Per
circa un secolo e mezzo i regnanti ellenistici la utilizzarono con successo,
esasperandone le caratteristiche.
Proprio per assenza di rivali, la stessa falange si evolse esasperando le sue
caratteristiche, irrigidendosi e sclerotizzandosi, in assenza però di
dialettiche esterne che ne mettessero alla prova le evoluzioni.
Falange Macedone,
bassorilievo conservato al Museo di Salonicco. (Fonte: picture alliance /
Arco Images )
Durante
questa trasformazione, tra le componenti dell’originaria tenaglia macedone, i
sovrani confusero gli elementi di forza, o meglio, decisero di sviluppare un
solo elemento rispetto all’altro: tra il martello della cavalleria e l’incudine
della falange venne privilegiato lo sviluppo di quest’ultimo.
Da
un lato quindi, vennero infittiti i ranghi e venne allungata la sarissa, anche
se a scapito di una già bassa mobilità. In tal modo, la falange si sarebbe
potuta muovere solo in linea retta e su terreni sostanzialmente pianeggianti,
rendendole impossibile il riposizionamento
Dall’altro
lato venne ridotto il numero di cavalieri. Il rapporto tra fanti e cavalieri
che in Alessandro era quasi di 2:1 (Alessandro arrivò a schierare 12.000
falangiti e 5-7.000 cavalieri) venne progressivamente ridotto: nello scontro
tra i due comandanti ellenistici Antioco III e Tolomeo IV a Rafah (o Raphia)
nel 217 a.C., il rapporto tra i falangiti e la cavalleria fu di oltre 5:1; a
Sellasia (222 a.C.), dove i macedoni decretano la definitiva sconfitta di
Sparta, il rapporto arriva a 8:1, così come a Cinocefale (197 a.C.). Se la
tattica dell’incudine e del martello ora perdeva la sua ragion d’essere,
parimenti i fianchi della falange rimanevano scoperti e alla mercé di quanti ne
avessero saputo cogliere l’occasione. Ma nessun comandante ellenistico avrebbe
potuto pensare di cogliere alle spalle la falange nemica, concentrato com’era a
colpire il fronte con una selva di lance sempre più impenetrabile e potente.
Una questione accademica?
Nel
secondo secolo a.C., quando ormai erano avvenuti alcuni grandi scontri tra le
due formazioni più forti del mondo antico, si accese il dibatto su quale delle
due fosse la migliore, la falange ellenistica o la legione romana.
Il dibattito, soprattutto in ambiente greco si sviluppò acceso e vi partecipò
lo stesso Polibio, illustrando la sua posizione nelle Storie.
Battaglia di
Verona. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dall’Arco di Costantino, Roma.
I
sostenitori della falange affermavano che, su un terreno ideale, la falange
sarebbe stata invincibile e che le sconfitte di Cinoscefale, di Magnesia, di
Pidna, erano dovute solo ad una sfortunata coincidenza: ora per le asperità del
terreno che non erano quello ideale della falange, ora per una sorte avversa,
ora per la fretta dei comandanti che non avevano aspettato di schierare tutte
le truppe prima di iniziare la battaglia.
Nelle
Storie, Polibio parte proprio da questo presupposto, affermando che in
condizioni ideali, su un terreno perfettamente pianeggiante e ampio, in cui le
due formazioni si scontrassero frontalmente, sarebbe la falange ad avere la
meglio. Argomento ripreso dai sostenitori di questo ordinamento militare; i
quali si fermano a questa prima parte e non proseguono la lettura dello stesso.
Proprio
perché il terreno ideale è un terreno piano privo di asperità, questo è molto
difficile da trovare ed è molto facile per l’avversario rifiutare la battaglia
qualora si dovesse presentare.
Inoltre, proprio il fatto che sussista sempre un qualche evento che sfavorisca
la falange, sembra voler dire che questa è troppo sottoposta a variabili
esterne non controllabili a lei svantaggiose. La forza di una formazione
dipende anche da come sa adattarsi alle varie situazioni.
Sarcofago del Portinaccio,
del 180 d.C., conservato al Museo Nazionale Romano
La
legione, viceversa, più versatile, possiede sulla falange un vantaggio
strategico.
Ma anche sul piano tattico la legione possiede un vantaggio.
Supponendo
uno scontro tra le due formazioni, si avrebbe da un lato un blocco compatto di
lance che deve avanzare necessariamente allineato, all’unisono. Dall’altro, dei
legionari, con un buon armamento che vengono punzecchiati costantemente dalle
sarisse.
La struttura manipolare, però, permette un ricambio delle forze a contatto.
Così dopo che un manipolo si è logorato nel combattimento, viene sostituito dal
manipolo che lo segue; così, portandosi nel retro dello schieramento può
riprendere le forze.
Inoltre,
i manipoli non ingaggiati nel corpo a corpo possono lanciare i pesanti pilum contro la falange. Già
Pirro aveva dovuto constatare l’efficacia di questa arma da getto, ad Eraclea
(280 a.C.) come ad Ascoli Satriano (279 a.C.), constatando come questa fosse
effettivamente la minaccia più grave per le sue falangi.
E quando questa azione congiunta riuscisse a creare un seppur piccolo varco tra
la compattezza avversaria, lì si inserirebbe la fila dei principes scompaginando la
falange.
Sarcofago detto
“Grande Ludovisi”, con scena di battaglia tra soldati Romani e Germani. Marmo proconnesio,
opera romana, 251/252 d.C. ca. (foto di Jastrow, 2006, da wikipedia)
Certo
è che, alla fine, sono i corpi a supporto delle due formazioni che fanno la
differenza, la cavalleria e le truppe leggere che agiscono sui fianchi degli
schieramenti, eventualmente capaci di aprire anche temporaneamente dei varchi
su cui può inserirsi lo schieramento principale. Così, se gli eserciti
ellenistici avevano abbandonato l’uso della cavalleria, sotto Alessandro o
Filippo la falange avrebbe dato il meglio; di contro, anche i romani, a partire
dalla seconda guerra punica in poi, sostituirono le cavallerie italiche con le
migliori numide e spagnole, fino a quelle germaniche dei tempi di Cesare.
Quando le due formazioni militari si trovarono di fronte e si scontrarono, la
falange capitolò. Il suo regno era finito.
Cinocefale (197 a.C.)
La
battaglia di Cinocefale (197 a.C.) venne combattuta in Tessaglia tra le legioni
romane guidate da Flaminio e le falangi macedoni guidate direttamente dal Re di
Macedonia Filippo V, nell’ambito della Seconda Guerra Macedonica (200 a.C. –
197 a.C.) per il controllo del Mar Egeo. Alla fine della stessa, Filippo V
dovette abbandonare i possedimenti in Grecia. Ma la libertà delle città greche
proclamata dal console Flaminio fu solo apparente e le poleis caddero poco tempo dopo
sotto il controllo romano.
Lo
scontro si svolse sulla sommità della collina che separava i campi notturni dei
due eserciti e si aprì con il contatto tra due gruppi di esploratori inviati
dai rispettivi comandanti a verificare le mosse del nemico. A loro supporto,
sia i macedoni sia i romani inviarono delle truppe, prima solo sul settore
interessato poi su tutto il campo. In questo scontro iniziale i romani
iniziarono ad avere la peggio, mentre il resto delle truppe raggiungeva la
sommità della collina e prendeva posizione.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di
Cinocefale (197 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore.
La
situazione cambiò quando sull’altra ala, mentre la falange iniziava a prendere posizione,
le truppe romane sfruttarono il momento di debolezza macedone e caricarono. Lo
scontro fu favorevole ai romani, essendo la falange non schierata, ed
iniziarono ad avanzare respingendo i macedoni.
Se l’ala destra macedone aveva la meglio sull’ala sinistra romana e la
respingeva, l’opposto si verificava sull’altra ala ove erano i romani a
respingere i macedoni, arrivando al punto che il retro di ciascuno dei due
schieramenti si superasse a vicenda.
E’
in questo momento che la superiorità strategica della legione diviene evidente.
Un tribuno, accortosi della situazione cambiò immediatamente fronte e guidò
venti manipoli contro le spalle della falange macedone, facendone strage.
Magnesia (190 a.C.)
La
guerra romano-siriaca (o romano-seleucide, 192 – 188 a.C.) contrappose l’impero
seleucide guidato da Antioco III e la Repubblica Romana ed i suoi alleati, per
il controllo dell’Asia Minore.
Lo scontro decisivo avvenne e Magnesia (in Turchia, a pochi chilometri dalla
costa egea), dove i Romani sconfissero le falangi di Antioco III.
SCHIERAMENTO
Lucio
Cornelio Scipione, schierò l’esercito mettendo le legioni al centro secondo lo
schieramento classico romano; tra i principes ed i triari dispose 16 elefanti. Dispose la
cavalleria sul fianco sinistro, protetto dal fiume Ermo, e sull’ala destra le
truppe leggere alleate del re Eumene II di Pergamo. Lasciò 2.000 volontari
della Tracia e della Macedonia a custodire l’accampamento.
L’esercito
seleucide era decisamente superiore, formato da una grande quantità e varietà
di truppe: falangi, arcieri a cavallo, arcieri e frombolieri, una forte
cavalleria sia leggera sia catafratta, 54 elefanti, carri falcati, per oltre
70.000 uomini.
Antioco dispose le fanterie su due linee parallele, davanti la fanteria leggera
e dietro la falange.
Sull’ala destra Antioco prese il comando della cavalleria e dei catafratti,
mentre sull’ala sinistra dispose una forte cavalleria, i carri falcati e gli
arcieri arabi montati su dromedari guidati dal figlio Seleuco.
COMBATTIMENTO
Antioco
sferra l’attacco sulle ali. Lancia prima i suoi carri da guerra sull’ala destra
romana e poi lancia i suoi catafratti contro l’ala sinistra romana.
Prima di giungere sulle file avversari, i carri da guerra vengono bersagliati da una intensa pioggia di frecce, sassi e giavellotti scagliati dalle fanterie
leggere alleate. I cavalli si imbizzarriscono, si fermano, non riescono ad
urtare le linee e tornano indietro, creando scompiglio sulla cavalleria
seleucide.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di
Magnesia (190 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore.
Sull’ala
opposta Antioco ha la meglio. I suoi catafratti respingono la cavalleria romana
fino al campo. Dove però corrono in soccorso le truppe lasciate a guardia del
campo. Seppure in vantaggio, Antioco non riesce a prendere il completo
sopravvento.
Sulla sua ala sinistra invece, la cavalleria in fuga è inseguita dai romani che
giungono fino al fianco sinistro dello schieramento della fanteria seleucide.
La fanteria romana carica al centro. Si apre a ventaglio e, grazie
all’aggiramento sul fianco sinistro stringe la fanteria seleucide nella morsa.
Antioco,
che aveva sopraffatto l’ala sinistra romana, si accorge tardi della situazione
nel centro, tenta di tornare indietro in soccorso ma è troppo tardi, e deve abbandonare
il campo.
Pidna (168 a.C.)
La
battaglia di Pidna (168 a.C.), sulla costa egea della Grecia poco distante
dalla penisola Calcidica, fu lo scontro decisivo della Terza Guerra Macedonica
(171 a.C. – 168 a.C.) tra la Repubblica Romana ed il Regno di Macedonia,
guidato dal re Perseo, per il controllo del mare Egeo.
SCHIERAMENTO
La
battaglia di Pidna si svolge nel pomeriggio del 22 giugno del 168 a.C., dopo
che i due eserciti schierati in formazione da battaglia si sono osservati per
tutta la mattina, separati dal solo fiume Leuco, con il proprio campo alle spalle.
I
romani hanno schierato la classica formazione. Le legioni romane al centro,
sull’ala destra gli alleati italici e su quella sinistra gli alleati greci. La
cavalleria protegge entrambi i fianchi e più esternamente, sulla sinistra, gli
elefanti da guerra.
Nelle
fila macedoni, il centro è tenuto dalla falange composta dai Leucaspidi (soldati scelti con scudo
bianco e armatura dorata) sulla sinistra e dai Calcaspidi (gli scudi di bronzo) sulla
destra; l’ala destra è tenuta dai Traci, mentre la sinistra dai mercenari; ai
fianchi le cavallerie.
Nessuno
dei due comandanti vuole attaccare per primo e attende la mossa dell’altro.
Il Re macedone Perseo, rendendosi conto dell’impossibilità di provocare i
Romani a fare il primo passo, ritira i propri uomini; i Romani, invece,
indugiano ancora un po’ in formazione.
Ma
una scaramuccia, nata per un cavallo, tra pochi Italici e Traci cresce, fino a
divenire la scintilla della battaglia, a cui si aggiungono via via truppe.
Perseo vede la possibilità di ingaggiare quella battaglia che Lucio Emilio non
ha finora accettato. Invia nuovamente l’esercito fuori dal campo ed attacca,
pur non avendo ancora completato lo schieramento. L’inizio della battaglia vede
i Romani dispiegati ed i Macedoni che attaccano mano a mano che arrivano.
COMBATTIMENTO
Perseo
fa uscire i mercenari in soccorso ai Traci, sull’ala sinistra e subito dopo la
falange, prima i Calcaspidi poi i Leucaspidi.
I Calcaspidi guadano il fiume, si dispongono in formazione ed avanzano. Gli
Italici non resistono: il muro di lance dei Calcaspidi ha la meglio sui Romani
che arretrano, ma ordinatamente, sulle colline circostanti.
Questa parte della falange macedone è già impegnata nel combattimento e dunque
in posizione avanzata rispetto al resto, mentre i Luecaspidi stanno ancora
guadando.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di
Pidna (168 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore (senza
audio).
Emilio
vede le falle. I Calcaspidi, mentre avanzano sul terreno difforme delle
colline, si stanno scompaginando; tra i Calcaspidi ed i Leucaspidi si è formata
una larga apertura, la prima già in contatto e la seconda che sta guadando in
formazione di marcia e non di battaglia; ed infine, i fianchi di tutta la
falange sono scoperti, perché la cavalleria non è ancora uscita dal campo.
Il
comandante romano coglie il momento opportuno: prima che anche i Leucaspidi
terminino l’attraversamento del Leuco e si dispongano in formazione serrata,
gli manda contro una legione, al comando di Lucio Albino e rafforzata con parte
della cavalleria e degli elefanti, che coglie i falangiti ancora non schierati.
Poi invia un’altra legione sull’ala destra, dove numerosi manipoli cercano di
infiltrarsi tra le file della falange che non riesce a mantenere la coesione
dello schieramento. Il resto della cavalleria viene tenuta di riserva, in
attesa degli eventi e delle mosse della cavalleria macedone.
I
manipoli di legionari che si aprono la strada tra le sarisse sgretolano la
falange, costretta ora a difendere i fianchi con le spade. I Leucapsidi,
impacciati dalle sarisse, tentano anch’essi il combattimento corpo a corpo ma i
romani fanno strage, favoriti dall’armamento e dall’addestramento.
Nel corpo a corpo, lo schieramento macedone viene annientato; gli uomini
fuggono indietro riattraversando il fiume.
Quando
Perseo termina di schierare la cavalleria, il suo esercito è già volto in fuga
e la battaglia è irrimediabilmente perduta. Di fronte alle sue truppe in rotta,
scappa per rifugiarsi a Pella. L’inseguimento romano dei macedoni in fuga
continua fino a notte, inseguiti fino alle spiagge, dove vengono falciati dagli
elefanti e dalla cavalleria, e fino al mare dove vengono massacrati dai marinai
della flotta romana all’ancora.
Dell’invincibile
falange macedone non resta più nulla.
§ Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario,
Il Mulino 2008.
§ Polibio, Storie. Libri XIX-XXVII, Vol. 6,
BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2004. Testo greco a fronte. Trad. it. di
Canali De Rossi F.