domenica 28 luglio 2019

Fanteria italica


Il nerbo degli antichi eserciti italici era formato dai cittadini stessi, che si armavano a proprie spese secondo le proprie possibilità; come per tutti gli aspetti della vita sociale, il censo definiva obblighi e diritti anche all’interno dell’esercito. In esso, ogni uomo veniva inquadrato nella formazione che gli competeva, attraverso la possibilità che aveva di procurarsi le armi. 


Presso i Sanniti, così come presso gli Etruschi, i magistrati preposti alla formazione dell’esercito sceglievano le persone più valenti in battaglia che a loro volta sceglievano tra i loro conoscenti quelli che reputavano migliori, e così via, fino a raggiungere il numero totale di circoscritti stabilito per legge.
Tuttavia, a partire dal V-IV sec. a.C. gli uomini dell’Appennino centrale iniziarono a combattere come mercenari al servizio delle città costiere dell’Etruria e della Magna Grecia, come testimoniano i frequenti ritrovamenti di armi e cinturoni nelle tombe maschili.
I Mamertini, che reduci da Siracusa arrivano a Messina intorno al 283 a.C., sono mercenari campani, cioè Italici; i quali portano in Sicilia la lingua osca, come si evince da una iscrizione ora conservata al Museo di Messina, scritta con caratteri greci ma in lingua osca, dove la parola “
meddices” è facilmente riconoscibile. 


Gli armamenti degli eserciti variavano con le possibilità economiche, ma anche in base alla conformazione del terreno. La presenza di catene montuose nelle zone interne dell’appennino centro-meridionale, fece sì che gli eserciti fossero formati in larga misura da fanterie leggere che utilizzavano principalmente le tecniche della guerriglia e della guerra alpigiana. Genti che conoscevano profondamente i luoghi ove abitavano, attaccavano gli intrusi investendoli con una pioggia di lance, frecce e sassi, per poi ripiegare velocemente, sopperendo con l’astuzia la mancanza della forza militare.
La combattività dei popoli italici e la quasi invincibilità sui terreni aspri ma a loro familiari fu nota anche ai colonizzatori greci che, nonostante dominassero le pianure costiere grazie alla compattezza della falange oplitica, mal resistettero agli scontri sui territori dell’interno. Ma che sfruttarono anche a loro favore, con le navi da guerra picene che scortavano le navi mercantili greche in navigazione nel medio Adriatico, contro i pirati illiri (cfr. Stele Novilara).
I Vestini ed i Peligni erano considerati ottimi tiratori con l’arco e con la fionda, formata da piccole strisce di cuoio con la quale lanciavano dei proietti ellissoidali in piombo su cui scrivevano il nome del proprio popolo oppure delle invettive contro i nemici; anche i Marsi furono ottimi lanciatori di verretta, un’asta lunga 3 piedi e mezzo con una punta in ferro di sezione triangolare. 


Qualora si presentasse la necessità di scontri frontali tra grandi unità, lo schieramento prevedeva la disposizione in tre corpi di fanteria, suddivisa per il tipico ordinamento degli antichi italici cioè la coorte, disposti in ala destra, sinistra e corpo centrale, con le cavallerie sulle ali e gli schermagliatori a supporto.
Le fanterie pesanti di molte popolazioni dell’Italia antica, quali i Volsci, i Sabini ed i Sanniti, armati sul modello degli opliti greci, usavano un’armatura pettorale formata da un disco di bronzo di circa 20 cm di diametro o da una lastra delle stesse dimensioni. La lastra veniva tenuta leggermente sulla sinistra, a protezione del cuore, da cui il nome Kardiophylax.
Gli schinieri, sempre in bronzo, erano molto alti, a difesa intera delle gambe, dal malleolo sino alla parte superiore del ginocchio. Gli Ernici, secondo Vegezio, indossavano uno schiniere in cuoio sulla sola gamba destra, perché la sinistra era coperta dal loro ampio scudo. 


Molto diversi tra loro gli elmi, dotati di visiere, di nasali, di paragnatidi; in cima, venivano inserite creste, pennacchi o piume, per far apparire il fante più alto e per dotarlo di nobile aspetto. Tra i Piceni, il modello più utilizzato era quello a forma troncoconica con pareti convesse, a cui veniva fissata una cresta, un rivestimento interno di materiale deperibile e dei paragnatidi; l’elmo a disco, quello del Guerriero di Capestrano, era un elmo da parata.
Le truppe leggere schermagliatrici degli Equi e degli Ernici si proteggevano il capo con cortecce di sughero o con pelli di orso e di lupo.
Molto diversificati tra loro furono anche gli scudi. Oltre al grande scudo argivo usato dalla maggior parte delle fanterie pesanti italiche, i Lucani usavano scudi di vimini ricoperti di cuoio; i Bruzzi impugnavano dei piccoli scudi rotondi, come raffigurato in alcune loro monete; i Liguri degli scudi piccoli e leggeri in rame mentre molto grandi erano quelli dei Marsi. Altri scudi avevano una forma allungata, più larghi nella parte superiore (a protezione del viso e del petto), più stretti nella parte inferiore (verso le gambe, spesso protette da schiniere).
Schermagliatori Equi che indossano pelli di orso e di lupo

Così protetti, i fanti delle prime file scagliavano il pilo, fatto da legno di frassino, mirto o di corniolo; quello degli Etruschi, ripreso poi dai Romani, era tale che si piegava al primo impatto, in modo da essere inservibile ai nemici. Dopo il lancio, i fanti estraevano le spade appese al fianco sinistro per mezzo di un balteo: spade corte e grosse, a doppio filo e munite di punta, riprese anch’esse dai romani.

Bibliografia

§  Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832.
§  Giacomo Devoto, Gli antichi italici, Vallecchi, 1931.
§  Museo Archeologico di Spoleto, Spoleto Il villaggio degli Umbri e la città dei Romani, 2015.

Figurini

Hat 8040 (1/72) – 48 figure in 8 pose nella scatola. Ho escluso 4 figurini in una posa che sono utilizzati per la fanteria Etrusca.

domenica 21 luglio 2019

Cavalleria italica


Cavalleria Sannita

Il Sannio è una regione sostanzialmente montuosa, dunque non particolarmente idonea all’utilizzo di unità montate. Eppure, la cavalleria media sannita godeva di un’ottima fama. Gli stessi romani la utilizzarono come cavalleria alleata durante la seconda guerra punica. E rimase tale fino alla guerra sociale (90-88 a.C.), quando tutti gli italici delle regioni centro-meridionali ottennero la cittadinanza romana. Da allora, divenne parte integrante dell’esercito romano.

Cavalleria media, armata di lancia, scudo ed armatura

Cavalleria Campana

Nei molti scontri, essi [i Campani] erano di norma vincitori nelle battaglie equestri, mentre in quelle di fanteria essi erano battuti.
[Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVI, 4]

La Campania è sempre stata una regione ricca; le sue numerose pianure erano ottimi pascoli per gli allevamenti equini della nobiltà locale, che forniva i cavalieri necessari alla difesa della capitale, Capua.
Appartenenti a questa aristocrazia, gli
Equites Campanici erano noti come i migliori cavalieri italici, i cui unici rivali furono i Sanniti. I cavalieri Campani cavalcavano cavalli da guerra robusti, seppur piccoli. Indossavano armature di bronzo, scudo e schinieri; erano armati di giavellotti e di spada greca di tipo Kopis.
I cavalieri Campani formavano un’eccellente
cavalleria media. Se da una parte era abile nelle tattiche di schermaglia, con il continuo susseguirsi di cariche e ritirate, dall’altra, grazie all’armamento, risultava adatta anche alla mischia, spesso contro piccoli gruppi di nemici isolati oppure ai fianchi dello schieramento avversario.
Come per tutte le unità campane, la loro scomparsa avvenne alla fine della Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.). In questa guerra, delle due più potenti cavallerie medie italiche, una rimase fedele all’alleanza romana (quella sannita), mentre l’altra (quella campana) passò tra le fila cartaginesi. Dopo la conquista romana di Capua (211 a.C.), la popolazione maschile fu passata per le armi o venduta come schiava, ponendo fine alla loro grande tradizione della cavalleria.
Schieramento di cavalleria media, Sannita o Campana

Cavalleria Etrusca

Alcuni reperti etruschi mostrano cavalieri armati di lancia e spada, protetti da elmo, scudo e piastra pettorale; tuttavia gli Etruschi, pur usando le briglie ed i morsi, non conoscevano le staffe e la sella. E’ difficile pensare, allora, a questi cavalieri come parte delle unità di cavalleria pesante, che impatta sullo schieramento nemico. I cavalieri ritratti appartenevano, in realtà, alla fanteria montata; essi usavano il cavallo solo per spostarsi più rapidamente, ma scendevano dalle montature appena entravano in contatto con il nemico.
La cavalleria etrusca propriamente detta era una
cavalleria leggera; i cavalieri erano armati unicamente di giavellotti e non avevano alcuna protezione personale.
Tuttavia, una scena ritratta su una lastra di rivestimento conservata al museo di Tarquinia mostra cavalieri che combattono in corsa, armati di scudi e con la lancia pronta al tiro. Certo non cavalleria pesante che carica i nemici, ma probabilmente una cavalleria media, con lancia elmo e scudo.
Il compito della cavalleria era di esplorazione e di avanguardia, di ricognizione, di scorta, ed inseguiva i nemici in fuga al termine della battaglia.
Cavalleria leggera, armata solo di lancia

Cavalleria Apula

Le ampie distese pianeggianti della Puglia, rotte sole da dolci vallate, che si estendono dal Gargano a tutto il Tavoliere fino alle punte estreme sul mare, furono tra il VIII e il III secolo a.C. il luogo ideale per l’allevamento equino. Gli Apuli che vi abitavano, avevano la loro base materiale nella coltivazione cerealicola e nell’allevamento dei cavalli, attività che si sostengono vicendevolmente: i cavalli concimavano in loco le terre e la coltivazione dei cereali forniva l’alimentazione anche dei cavalli: il tutto forniva quelli che Virgilio definì come i cavalli “di buona razza” (Eneide XI 678). L’allevamento fu quindi una attività di cui gli Apuli andarono sicuramente fieri, come dimostrano i numerosi conii di molte loro città. I loro cavalli venivano acquistati sicuramente a nord della Apulia, nella terra dei Frentani e dei Marrucini, e ad ovest, dalle popolazioni sannite.
Oltre agli animali, gli Apuli esportarono le loro competenze equestri. Da loro i Tarantini impararono l’arte della cavalleria, che misero a frutto accompagnando Alessandro Magno nella conquista dell’Oriente.
Gli Apuli eccelsero nella cavalleria, combattendo con lancia e scudo, e fornirono numerosi cavalieri ai propri eserciti o ai propri alleati.

Nel 345 a.C. la forte cavalleria dei Messapi (gli Apuli che vivevano più a sud) sconfisse il re spartano Archidamo, che lasciò la vita sul campo nei pressi di Manduria, a pochi Km da Taranto, città a cui voleva fornire aiuto.
Nel 279 a.C., contro Pirro, gli Apuli fornirono 400 cavalieri ai Romani nella battaglia di Ascoli Satriano.
Nelle guerra per il controllo dell’Italia meridionale, gli Apuli, schierati nei due campi avversi, portarono il peso della loro
cavalleria leggera in ambo le parti.
Nel 225 a.C., secondo il console Gaio Fabio Pittore, i Sanniti potevano mettere in campo 70 mila fanti e 7 mila cavalieri, i Lucani 13 mila fanti e 3 mila cavalieri, gli Apuli 50 mila fanti e 16 mila cavalieri; la cifra risulta verosimile se confrontata con i dati sugli allevamenti equini in Apulia. Il numero dei cavalieri disponibili fornisce la prova dell’estrema superiorità della cavalleria Apula su quella degli altri popoli Italici.
Cavalleria leggera, Etrusca o, più verosimilmente, Apula

Bibliografia

§  Leonardo D’Addabbo, Lo spirito guerriero degli antichi Apuli, in Japigia Rivista Pugliese di Archeologia, Anno II, Fasc. III, Brindisi 1931.
§  Vito A. Sirago, L’Apulia dall’indipendenza all’occupazione romana in Études Étrusco-Italiques du Recueil de Travaux d’Histoire et de Philologie 4a Sèrie, Fascicule 31 Louvain 1963.
§  Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832.


Cavalleria italica, leggera in prima fila, seguita da quella media

Figurini

Hat 8054 (1/72) – 12 figurini a cavallo, 6 con armatura e 6 senza armatura; 4 pose.

Imbasettamento

Basette 4 x 8 della Bandua Wargames
Cavalleria media: 3 cavalieri con armatura per basetta
Cavalleria leggera: 2 cavalieri senza armatura per basetta

domenica 14 luglio 2019

La fine della falange

La falange macedone aveva acquisito nel corso degli anni, e grazie alle innovazioni di Filippo il Macedone, un alone di invincibilità. Non solo gli immensi eserciti persiani erano caduti sotto la tenaglia macedone manovrata dal temerario Alessandro, che comunque avevano già dimostrato una sostanziale inferiorità nei confronti dei Greci in più di una occasione, da Maratona a Platea, a Cunassa (401 a.C.) dove l’unica formazione vincitrice dell’usurpatore Ciro il Giovane era stato proprio il contingente oplitico greco. Ma anche la falange oplitica aveva dovuto soccombere a quella macedone.
E quest’ultima si era così ritrovata senza rivali.

L’Irrigidimento

Per circa un secolo e mezzo i regnanti ellenistici la utilizzarono con successo, esasperandone le caratteristiche.
Proprio per assenza di rivali, la stessa falange si evolse esasperando le sue caratteristiche, irrigidendosi e sclerotizzandosi, in assenza però di dialettiche esterne che ne mettessero alla prova le evoluzioni.
Falange Macedone, bassorilievo conservato al Museo di Salonicco. (Fonte:  picture alliance / Arco Images )

Durante questa trasformazione, tra le componenti dell’originaria tenaglia macedone, i sovrani confusero gli elementi di forza, o meglio, decisero di sviluppare un solo elemento rispetto all’altro: tra il martello della cavalleria e l’incudine della falange venne privilegiato lo sviluppo di quest’ultimo.
Da un lato quindi, vennero infittiti i ranghi e venne allungata la sarissa, anche se a scapito di una già bassa mobilità. In tal modo, la falange si sarebbe potuta muovere solo in linea retta e su terreni sostanzialmente pianeggianti, rendendole impossibile il riposizionamento
Dall’altro lato venne ridotto il numero di cavalieri. Il rapporto tra fanti e cavalieri che in Alessandro era quasi di 2:1 (Alessandro arrivò a schierare 12.000 falangiti e 5-7.000 cavalieri) venne progressivamente ridotto: nello scontro tra i due comandanti ellenistici Antioco III e Tolomeo IV a Rafah (o Raphia) nel 217 a.C., il rapporto tra i falangiti e la cavalleria fu di oltre 5:1; a Sellasia (222 a.C.), dove i macedoni decretano la definitiva sconfitta di Sparta, il rapporto arriva a 8:1, così come a Cinocefale (197 a.C.). Se la tattica dell’incudine e del martello ora perdeva la sua ragion d’essere, parimenti i fianchi della falange rimanevano scoperti e alla mercé di quanti ne avessero saputo cogliere l’occasione. Ma nessun comandante ellenistico avrebbe potuto pensare di cogliere alle spalle la falange nemica, concentrato com’era a colpire il fronte con una selva di lance sempre più impenetrabile e potente.

Una questione accademica?

Nel secondo secolo a.C., quando ormai erano avvenuti alcuni grandi scontri tra le due formazioni più forti del mondo antico, si accese il dibatto su quale delle due fosse la migliore, la falange ellenistica o la legione romana.
Il dibattito, soprattutto in ambiente greco si sviluppò acceso e vi partecipò lo stesso Polibio, illustrando la sua posizione nelle Storie.
Battaglia di Verona. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dall’Arco di Costantino, Roma.

I sostenitori della falange affermavano che, su un terreno ideale, la falange sarebbe stata invincibile e che le sconfitte di Cinoscefale, di Magnesia, di Pidna, erano dovute solo ad una sfortunata coincidenza: ora per le asperità del terreno che non erano quello ideale della falange, ora per una sorte avversa, ora per la fretta dei comandanti che non avevano aspettato di schierare tutte le truppe prima di iniziare la battaglia.
Nelle Storie, Polibio parte proprio da questo presupposto, affermando che in condizioni ideali, su un terreno perfettamente pianeggiante e ampio, in cui le due formazioni si scontrassero frontalmente, sarebbe la falange ad avere la meglio. Argomento ripreso dai sostenitori di questo ordinamento militare; i quali si fermano a questa prima parte e non proseguono la lettura dello stesso.
Proprio perché il terreno ideale è un terreno piano privo di asperità, questo è molto difficile da trovare ed è molto facile per l’avversario rifiutare la battaglia qualora si dovesse presentare.
Inoltre, proprio il fatto che sussista sempre un qualche evento che sfavorisca la falange, sembra voler dire che questa è troppo sottoposta a variabili esterne non controllabili a lei svantaggiose. La forza di una formazione dipende anche da come sa adattarsi alle varie situazioni.
Sarcofago del Portinaccio, del 180 d.C., conservato al Museo Nazionale Romano

La legione, viceversa, più versatile, possiede sulla falange un vantaggio strategico.
Ma anche sul piano tattico la legione possiede un vantaggio.
Supponendo uno scontro tra le due formazioni, si avrebbe da un lato un blocco compatto di lance che deve avanzare necessariamente allineato, all’unisono. Dall’altro, dei legionari, con un buon armamento che vengono punzecchiati costantemente dalle sarisse.
La struttura manipolare, però, permette un ricambio delle forze a contatto. Così dopo che un manipolo si è logorato nel combattimento, viene sostituito dal manipolo che lo segue; così, portandosi nel retro dello schieramento può riprendere le forze.
Inoltre, i manipoli non ingaggiati nel corpo a corpo possono lanciare i pesanti pilum contro la falange. Già Pirro aveva dovuto constatare l’efficacia di questa arma da getto, ad Eraclea (280 a.C.) come ad Ascoli Satriano (279 a.C.), constatando come questa fosse effettivamente la minaccia più grave per le sue falangi.
E quando questa azione congiunta riuscisse a creare un seppur piccolo varco tra la compattezza avversaria, lì si inserirebbe la fila dei 
principes scompaginando la falange.
Sarcofago detto “Grande Ludovisi”, con scena di battaglia tra soldati Romani e Germani. Marmo proconnesio, opera romana, 251/252 d.C. ca. (foto di Jastrow, 2006, da wikipedia)

Certo è che, alla fine, sono i corpi a supporto delle due formazioni che fanno la differenza, la cavalleria e le truppe leggere che agiscono sui fianchi degli schieramenti, eventualmente capaci di aprire anche temporaneamente dei varchi su cui può inserirsi lo schieramento principale. Così, se gli eserciti ellenistici avevano abbandonato l’uso della cavalleria, sotto Alessandro o Filippo la falange avrebbe dato il meglio; di contro, anche i romani, a partire dalla seconda guerra punica in poi, sostituirono le cavallerie italiche con le migliori numide e spagnole, fino a quelle germaniche dei tempi di Cesare. Quando le due formazioni militari si trovarono di fronte e si scontrarono, la falange capitolò. Il suo regno era finito.

Cinocefale (197 a.C.)

La battaglia di Cinocefale (197 a.C.) venne combattuta in Tessaglia tra le legioni romane guidate da Flaminio e le falangi macedoni guidate direttamente dal Re di Macedonia Filippo V, nell’ambito della Seconda Guerra Macedonica (200 a.C. – 197 a.C.) per il controllo del Mar Egeo. Alla fine della stessa, Filippo V dovette abbandonare i possedimenti in Grecia. Ma la libertà delle città greche proclamata dal console Flaminio fu solo apparente e le poleis caddero poco tempo dopo sotto il controllo romano.
Lo scontro si svolse sulla sommità della collina che separava i campi notturni dei due eserciti e si aprì con il contatto tra due gruppi di esploratori inviati dai rispettivi comandanti a verificare le mosse del nemico. A loro supporto, sia i macedoni sia i romani inviarono delle truppe, prima solo sul settore interessato poi su tutto il campo. In questo scontro iniziale i romani iniziarono ad avere la peggio, mentre il resto delle truppe raggiungeva la sommità della collina e prendeva posizione.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di Cinocefale (197 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore.

La situazione cambiò quando sull’altra ala, mentre la falange iniziava a prendere posizione, le truppe romane sfruttarono il momento di debolezza macedone e caricarono. Lo scontro fu favorevole ai romani, essendo la falange non schierata, ed iniziarono ad avanzare respingendo i macedoni.
Se l’ala destra macedone aveva la meglio sull’ala sinistra romana e la respingeva, l’opposto si verificava sull’altra ala ove erano i romani a respingere i macedoni, arrivando al punto che il retro di ciascuno dei due schieramenti si superasse a vicenda.
E’ in questo momento che la superiorità strategica della legione diviene evidente. Un tribuno, accortosi della situazione cambiò immediatamente fronte e guidò venti manipoli contro le spalle della falange macedone, facendone strage.

Magnesia (190 a.C.)

La guerra romano-siriaca (o romano-seleucide, 192 – 188 a.C.) contrappose l’impero seleucide guidato da Antioco III e la Repubblica Romana ed i suoi alleati, per il controllo dell’Asia Minore.
Lo scontro decisivo avvenne e Magnesia (in Turchia, a pochi chilometri dalla costa egea), dove i Romani sconfissero le falangi di Antioco III.

SCHIERAMENTO

Lucio Cornelio Scipione, schierò l’esercito mettendo le legioni al centro secondo lo schieramento classico romano; tra i principes ed i triari dispose 16 elefanti. Dispose la cavalleria sul fianco sinistro, protetto dal fiume Ermo, e sull’ala destra le truppe leggere alleate del re Eumene II di Pergamo. Lasciò 2.000 volontari della Tracia e della Macedonia a custodire l’accampamento.
L’esercito seleucide era decisamente superiore, formato da una grande quantità e varietà di truppe: falangi, arcieri a cavallo, arcieri e frombolieri, una forte cavalleria sia leggera sia catafratta, 54 elefanti, carri falcati, per oltre 70.000 uomini.
Antioco dispose le fanterie su due linee parallele, davanti la fanteria leggera e dietro la falange.
Sull’ala destra Antioco prese il comando della cavalleria e dei catafratti, mentre sull’ala sinistra dispose una forte cavalleria, i carri falcati e gli arcieri arabi montati su dromedari guidati dal figlio Seleuco.

COMBATTIMENTO

Antioco sferra l’attacco sulle ali. Lancia prima i suoi carri da guerra sull’ala destra romana e poi lancia i suoi catafratti contro l’ala sinistra romana.
Prima di giungere sulle file avversari, i carri da guerra vengono bersagliati da una intensa pioggia di frecce, sassi e giavellotti scagliati dalle fanterie leggere alleate. I cavalli si imbizzarriscono, si fermano, non riescono ad urtare le linee e tornano indietro, creando scompiglio sulla cavalleria seleucide.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di Magnesia (190 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore.

Sull’ala opposta Antioco ha la meglio. I suoi catafratti respingono la cavalleria romana fino al campo. Dove però corrono in soccorso le truppe lasciate a guardia del campo. Seppure in vantaggio, Antioco non riesce a prendere il completo sopravvento.
Sulla sua ala sinistra invece, la cavalleria in fuga è inseguita dai romani che giungono fino al fianco sinistro dello schieramento della fanteria seleucide.
La fanteria romana carica al centro. Si apre a ventaglio e, grazie all’aggiramento sul fianco sinistro stringe la fanteria seleucide nella morsa.
Antioco, che aveva sopraffatto l’ala sinistra romana, si accorge tardi della situazione nel centro, tenta di tornare indietro in soccorso ma è troppo tardi, e deve abbandonare il campo.

Pidna (168 a.C.)

La battaglia di Pidna (168 a.C.), sulla costa egea della Grecia poco distante dalla penisola Calcidica, fu lo scontro decisivo della Terza Guerra Macedonica (171 a.C. – 168 a.C.) tra la Repubblica Romana ed il Regno di Macedonia, guidato dal re Perseo, per il controllo del mare Egeo.

SCHIERAMENTO

La battaglia di Pidna si svolge nel pomeriggio del 22 giugno del 168 a.C., dopo che i due eserciti schierati in formazione da battaglia si sono osservati per tutta la mattina, separati dal solo fiume Leuco, con il proprio campo alle spalle.
I romani hanno schierato la classica formazione. Le legioni romane al centro, sull’ala destra gli alleati italici e su quella sinistra gli alleati greci. La cavalleria protegge entrambi i fianchi e più esternamente, sulla sinistra, gli elefanti da guerra.
Nelle fila macedoni, il centro è tenuto dalla falange composta dai Leucaspidi (soldati scelti con scudo bianco e armatura dorata) sulla sinistra e dai Calcaspidi (gli scudi di bronzo) sulla destra; l’ala destra è tenuta dai Traci, mentre la sinistra dai mercenari; ai fianchi le cavallerie.
Nessuno dei due comandanti vuole attaccare per primo e attende la mossa dell’altro.
Il Re macedone Perseo, rendendosi conto dell’impossibilità di provocare i Romani a fare il primo passo, ritira i propri uomini; i Romani, invece, indugiano ancora un po’ in formazione.
Ma una scaramuccia, nata per un cavallo, tra pochi Italici e Traci cresce, fino a divenire la scintilla della battaglia, a cui si aggiungono via via truppe.
Perseo vede la possibilità di ingaggiare quella battaglia che Lucio Emilio non ha finora accettato. Invia nuovamente l’esercito fuori dal campo ed attacca, pur non avendo ancora completato lo schieramento. L’inizio della battaglia vede i Romani dispiegati ed i Macedoni che attaccano mano a mano che arrivano.

COMBATTIMENTO

Perseo fa uscire i mercenari in soccorso ai Traci, sull’ala sinistra e subito dopo la falange, prima i Calcaspidi poi i Leucaspidi.
I Calcaspidi guadano il fiume, si dispongono in formazione ed avanzano. Gli Italici non resistono: il muro di lance dei Calcaspidi ha la meglio sui Romani che arretrano, ma ordinatamente, sulle colline circostanti.
Questa parte della falange macedone è già impegnata nel combattimento e dunque in posizione avanzata rispetto al resto, mentre i Luecaspidi stanno ancora guadando.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di Pidna (168 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore (senza audio).

Emilio vede le falle. I Calcaspidi, mentre avanzano sul terreno difforme delle colline, si stanno scompaginando; tra i Calcaspidi ed i Leucaspidi si è formata una larga apertura, la prima già in contatto e la seconda che sta guadando in formazione di marcia e non di battaglia; ed infine, i fianchi di tutta la falange sono scoperti, perché la cavalleria non è ancora uscita dal campo.
Il comandante romano coglie il momento opportuno: prima che anche i Leucaspidi terminino l’attraversamento del Leuco e si dispongano in formazione serrata, gli manda contro una legione, al comando di Lucio Albino e rafforzata con parte della cavalleria e degli elefanti, che coglie i falangiti ancora non schierati. Poi invia un’altra legione sull’ala destra, dove numerosi manipoli cercano di infiltrarsi tra le file della falange che non riesce a mantenere la coesione dello schieramento. Il resto della cavalleria viene tenuta di riserva, in attesa degli eventi e delle mosse della cavalleria macedone.
I manipoli di legionari che si aprono la strada tra le sarisse sgretolano la falange, costretta ora a difendere i fianchi con le spade. I Leucapsidi, impacciati dalle sarisse, tentano anch’essi il combattimento corpo a corpo ma i romani fanno strage, favoriti dall’armamento e dall’addestramento.
Nel corpo a corpo, lo schieramento macedone viene annientato; gli uomini fuggono indietro riattraversando il fiume.
Quando Perseo termina di schierare la cavalleria, il suo esercito è già volto in fuga e la battaglia è irrimediabilmente perduta. Di fronte alle sue truppe in rotta, scappa per rifugiarsi a Pella. L’inseguimento romano dei macedoni in fuga continua fino a notte, inseguiti fino alle spiagge, dove vengono falciati dagli elefanti e dalla cavalleria, e fino al mare dove vengono massacrati dai marinai della flotta romana all’ancora.
Dell’invincibile falange macedone non resta più nulla.

Bibliografia

§  Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino 2008.
§  Polibio, Storie. Libri XIX-XXVII, Vol. 6, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2004. Testo greco a fronte. Trad. it. di Canali De Rossi F.

domenica 7 luglio 2019

La falange macedone

L’aumento dei ranghi dello schieramento tebano ha richiesto una maggiore lunghezza della lancia, per rendere efficaci più file rispetto alle 3 o 4 file utili della falange oplitica.
Questa modifica, apparentemente minima, impatta sull’intero armamento del milite: una lancia più lunga è anche più pesante e ciò richiede che venga impugnata con due mani; ma se la mano sinistra aiuta la destra non può impugnare lo scudo argivo, che quindi deve essere ridotto di dimensioni. Lo scudo più piccolo offre una minore difesa al fante, che dovrà ora cercare una diversa protezione.
La soluzione viene trovata da Filippo II di Macedonia.
 Particolare del Sarcofago di Alessandro. Originale proveniente dalla necropoli di Sidone e attualmente conservata al Museo Archeologico di Istanbul, rappresentante la battaglia di Issos (foto Patrickneil da wikipedia, CC-BY-SA-2.5).
La terra su cui regna Filippo II è di antica nobiltà feudale, i cui esponenti sono tradizionalmente cavalieri. La cavalleria (hetairoi, i compagni) è eccellente ma numericamente ridotta. Ad essa Filippo deve affiancare una valida forza di fanteria.
Ma gli abitanti della Macedonia, montanari e contadini, sono privi dell’ethos dei guerrieri dei greci, non sono avvezzi alle armi quanto i cittadini delle poleis, e certamente non hanno la possibilità di acquistare le costose panoplie oplitiche.
L’armamento del fante macedone è molto più leggero; scompare la corazza e le difese si fermano all’elmo, gli schinieri e a un piccolo scudo del diametro di 60 cm, appeso al collo per permettere al fante di impugnare con due mani la lancia.
Appesa al fianco porta una corta spada, che tuttavia non serve: la già scarsa capacità combattiva individuale degli opliti dell’Ellade, diviene pressoché inesistente tra i fanti macedoni.
La vera forza della formazione risiede nella sua compattezza, così come la difesa del singolo fante: egli non è protetto dall’armatura e dallo scudo ma dalla sua lunga sarissa e dalla selva di punte dei suoi commilitoni che tengono lontani gli avversari. I nemici devono essere tenuti a distanza, perché se penetrassero il fante sarebbe incapace di difendersi.
Filippo II fornisce ai suoi falangiti (pezhetairoi, i compagni a piedi) una sarissa, la cui lunghezza varia nel tempo dai 12 ai 16 cubiti (1 cubito è pari a 44,4 cm), oltre 5 metri. I pezeteri (pezhetairoi) delle prime cinque file impugnano le loro sarisse con entrambe le mani, in posizione orizzontale, puntate contro il nemico; quelli delle file dietro oblique e ancor dietro verticali, pronti ad abbassarle quando coloro che li precedono cadono sotto i colpi avversari.
Ricostruzione policroma del Sarcofago di Alessandro. Originale proveniente dalla necropoli di Sidone e attualmente conservata al Museo Archeologico di Istanbul, rappresentante la battaglia di Issos (foto Marsyas da wikipedia, CC-BY-SA-2.5).
Filippo II ha capito la forza della manovra avvolgente ed usa la compattezza della sua falange per renderla efficace. Mentre la falange avanza lentamente e compatta verso il nemico, le sue cavallerie, quella pesante degli hetairoi e quella leggera degli alleati, prima mettono in fuga la cavalleria avversaria e poi assalgono alle spalle i nemici, spingendoli verso il muro di lance. Nella tattica dell’incudine e del martello, la falange non è il martello, ma l’incudine, che deve rimanere salda mentre la cavalleria-martello gli spinge il nemico contro.

I corpi a supporto

Il nerbo dell’esercito macedone è formato dai cavalieri e dai pezeteri. Questi sono sostenuti dalla presenza di altri corpi.
Primi tra tutti gli ipaspisti (hypaspistai) cioè i portatori di scudo. Questa formazione è armata come gli opliti, quindi una corazza di lino, l’elmo, gli schinieri e lo scudo argivo. Per l’offesa, sono dotati della spada (xiphos) e dell’asta (dory).
Nello schieramento vengono posti tra la falange e la cavalleria e servono a proteggere i fianchi della falange stessa. Questa infatti, seppur micidiale e impenetrabile frontalmente, risulta particolarmente vulnerabile ai fianchi. Gli Ipaspisti sono molto più mobili della falange macedone e possono allargarsi e richiudersi senza inficiare la loro azione.
Alessandro Magno e Dario III durante la battaglia di Issos, mosaico, part., II secolo a.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli, proveniente dalla Casa del Fauno di Pompei (foto di Marie-Lan Nguyen).
Da ultimo, il corpo dei peltasti. Dotato di soli giavellotti e della pelta, questo corpo risulta particolarmente agile e veloce. Seppur leggero, nel 391 a.C. un loro contingente ha sconfitto una mora di opliti spartiati a Lecheo. E’ un corpo che ha assunto una sua importanza. Ormai i piccoli regni non ingaggiano più battaglia nelle grandi pianure, dove la superiorità della falange domina incontrastata. Nonostante si registrino ancora le grandi battaglie campali (spesso decisive per il corso degli eventi), molti scontri avvengono su territori montuosi, dove non è possibile far manovrare la falange e dove gli abitanti si affidano molto alle asperità e alle caratteristiche del terreno per fronteggiare i grandi eserciti invasori. Su questo terreno, sono le truppe leggere che possiedono le migliori possibilità di vittoria.
Così composto, l’esercito macedone diviene invincibile nelle grandi battaglie campali ed inizia a formarsi intorno ad esso una sorta di alone leggendario, alimentato sia dalle battaglie di Filippo II come a Cheronea (338 a.C.) sia di Alessandro contro i vasti eserciti persiani.

La battaglia di Cheronea (338 a.C.)

La battaglia di Cheronea si svolse nel 338 a.C. tra Filippo II il macedone ed una alleanza di poleis greche, capeggiata da Atene e Tebe. La vittoria dello schieramento macedone segnò la fine della breve egemonia tebana e consegnò l’intera Grecia al potere di Filippo II.

Lo schieramento

Per equilibrare lo svantaggio delle forze in campo, l’alleanza greca scelse un terreno a loro favorevole. Essi si schierarono alle pendici del rilievo dell’acropoli di Cheronea, a coprire il fianco sinistro, fino ad arrivare ad un fiumiciattolo ed una palude che difendeva il loro lato destro, contro gli attacchi della cavalleria macedone, decisamente superiore. Formarono quindi uno sbarramento tra due ostacoli naturali. Gli ateniesi tenevano il lato sinistro, mentre i tebani restavano sulla destra.
Lo schieramento e le fasi della battaglia di Cheronea (338 a.C.). Illustrazione ed animazione dell’Autore.
Di fronte, ma non in modo parallelo, Filippo II schierò la sua falange. Sull’ala destra, Filippo guidava la cavalleria macedone, mentre sull’ala sinistra il giovane figlio Alessandro guidava la cavalleria tessalica (è necessario ricordare che nessuna fonte storica primaria parla esplicitamente di cavalleria, ma solo più genericamente di hetairoi, compagni, termine che vale anche per i cavalieri).

La battaglia

La battaglia inizia con una leggera ritirata di Filippo, seguita da una carica degli opliti ateniesi. Che abbiano caricato per sfruttare il lieve vantaggio del pendio o perché convinti che la falange macedone stesse realmente ritirandosi, continua ad essere fonte di disaccordo. Quanto si sa è che gli opliti ateniesi caricarono lo schieramento destro macedone, che indietreggiò lentamente. Gli ipaspisti trattennero a fatica l’impeto ateniese, mentre tutto lo schieramento destro macedone indietreggiò compatto.
Per tutto questo tempo, le sorti della battaglia rimasero incerte.
Una volta iniziata la battaglia fu aspramente combattuta per lungo tempo con molti caduti per ciascuna delle parti, sì che la lotta dava speranza di vittoria ad entrambi.
[Diodoro Siculo, XVI, 86.2]

Sul lato destro greco, i tebani rimasero indecisi sul da farsi, perché seguire l’avanzata ateniese avrebbe esposto il loro fianco destro alle cariche della cavalleria tessalica, non più protetto dalla conformazione del terreno.
Questa indecisione fece sì che si aprisse un varco nello schieramento greco, tra le falangi ateniesi e quelle tebane. E proprio in questo punto di discontinuità Alessandro si gettò con la sua cavalleria, attaccando il fianco sinistro dei tebani. In seguito allo scompiglio, la parte sinistra della falange macedone rimasta immobile durante la prima, ed incerta, fase della battaglia, avanzò fino a contattare gli opliti tebani. Alessandro completò l’aggiramento della falange tebana fino a  scontrarsi con il battaglione sacro, che venne annientato.
Lo sfaldamento dell’alleanza greca fu completa e anche gli ateniesi si ritirarono lasciando il campo a Filippo II.

Bibliografia

- Gianni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino, Bologna 2008.
- Diodoro Siculo, Biblioteca storica. Libri XVI-XX, Sellerio Editore, Palermo 1993; trad it. di D. P. Orsi, I. Labriola, P. Martino.