venerdì 8 maggio 2020

Facciamo l'erba

In questo articolo impareremo a fare l’erba per i nostri diorami e per le nostre basette.
Ovviamente si può comprare direttamente nei negozi di modellismo, ma:
  1. con l’importo di una bustina di erba comprata al negozio è possibile fare una quantità di erba decisamente superiore. Se si deve fare solo qualche basetta, potrebbe non essere conveniente, ma se dovete mettere l’erba su interi eserciti e oltre un centinaio di basette, allora conviene farsela.
  2. la soddisfazione di autoprodursi il necessario è impagabile
Cosa serve

Un contenitore largo, un colino (più grande è, meglio è), un bicchiere di plastica, un contenitore da gelato da 500 gr (prima mangiate il gelato) del gusto che preferite, un foglio da giornale per non sporcare il tavolo, un guanto di plastica, colore acrilico verde a vostra scelta, dell’acqua e la segatura.




La segatura non serve che sia fine. Se potete scegliere prendete quella più fine, in caso contrario prendete quello che c’è.

Procedimento

Mettete la segatura nel contenitore del gelato, fino ad arrivare a metà.


In un bicchiere mettete il colore che preferite, fino a metà. L’altra metà del bicchiere riempitelo con acqua.

Maneggiate il tutto fino a far diluire perfettamente il colore nell’acqua e poi versatelo sulla segatura, distribuendolo ovunque.


Infilate il guanto ed iniziate a maneggiare. Maneggiate bene, fino a quando tutta la segatura non sia colorata di verde.


Ora l’impasto è pronto per l’asciugatura.


Se è estate, fatela asciugare al sole, che è più veloce; se è in inverno, potete mettere il contenitore sopra al calorifero. In estate, al sole, in due giorni la segatura sarà asciutta; sopra al calorifero ci può volere anche una settimana.


Per facilitare l’asciugatura, mescolate bene una o due volte al giorno.


Si passa alla seconda fase, quella del filtraggio.


Mettete il composto un po’ per volta nel colino, con sotto il contenitore grande. Iniziate a mescolare con le mani all’interno del colino, facendo strisciare le dita sulla retina del colino. Le particelle più piccole passeranno e cadranno nel contenitore.

Potete anche usare il colino, appoggiato ad un imbuto inserito direttamente nel barattolo dentro cui conserverete il vostro preparato. E potete anche aiutarvi con uno strumento, per maneggiare: nella figura il manico di un coltello.

Più maneggiate, più particelle attraverseranno il colino.
Alla fine, dentro al colino rimarranno le parti più grandi; nel contenitore ci saranno le parti più piccole, la vostra erbetta, che conserverete in un barattolo.
Di seguito, la differenza tra quello che passa e quello che resta nel colino. Questa parte non buttatela, potrebbe servirvi per altro, ad esempio per fare le foglie degli alberi.

La vostra erba è pronta per l’uso.

Ovviamente, potete scegliere il verde di cui avete bisogno, più o meno chiaro.

Buon lavoro e buon divertimento!

giovedì 7 maggio 2020

I Celti in Oriente

Nel VI secolo a.C. si ebbe la massima espansione del mondo celtico. Le popolazioni celtiche popolavano l’Europa centrale si espansero alla ricerca di nuovi territori. Ampie parti della popolazione abbandonarono le terre di origine ormai non più sufficienti a sostenere l’aumento della popolazione.
Attraverso il ver sacrum, popolazioni di origine celtica varcarono le Alpi spingendosi verso sud, mentre altre si spostarono verso est, verso quelle che divennero le sedi danubiane.
Circa due secoli dopo, le sedi danubiane conobbero un ulteriore flusso migratorio di popolazioni celtiche. In Italia, l’ascesa della potenza romana da un lato bloccò l’espansione celtica verso sud; dall’altra la pace stipulata tra i Romani ed i Senoni nel 332 a.C. liberò ingenti forze militari che si riversarono sui Balcani in cerca di maggior fortuna.



Galata cadente, Museo Archeologico di Venezia

Tuttavia, l’espansione verso sud era interdetta anche nella penisola Balcanica. La potenza macedone, sotto il regno di Filippo II e poi di Alessandro Magno costituiva di fatto un ostacolo alla possibilità di scorrerie. Durante il regno Alessandro Magno, consci della superiorità macedone, i Celti mantennero sempre rapporto amichevole con il vicino del sud, fino a scambiarsi doni reciproci (Strabone, Geografia, VII). I buoni rapporti di vicinato vennero rinsaldati con le ambascerie a Babilonia nel 324 a.C. che i Celti inviarono presso la corte di Alessandro Magno per congratularsi con lui della sua conquista; ambasceria che venne fatta anche da altri popoli mediterranei.
La situazione cambiò con la morte di Alessandro. Le guerre di successione indebolirono i regni ellenistici sorti sulle macerie dell’impero universale, aprendo di fatto le porte alle invasioni celtiche.
Dopo un primo timido tentativo nel 310 a.C., si ebbe una seconda spedizione nel 298 a.C. che venne fermata sul Monte Emo da Cassandro, re di Macedonia.

Galata morente, Musei Capitolini

La situazione cambiò nel 281 a.C., quando dopo la battaglia di Curupedio tra i diodachi di Alessandro la situazione politica e militare divenne sufficientemente instabile da permettere un’invasione celtica.
Nel 280 a.C., dalla pianura pannonica, in cui si era concentrato un gran numero di popolazioni celtiche, prese le mosse quella che fu la più grande spedizione celtica contro la Grecia. Le direttrici dell’immensa invasione seguirono tre percorsi. Keretrio guidò il primo troncone verso la Tracia, il cui esercito era indebolito dagli scontri contro Seleuco I, la devastò, rese schiavi i Triballi e rientrò nelle pianure di partenza. Contemporaneamente, Bolgio guidò un secondo contingente verso sud, risalì con facilità la Morava, fino ad invadere l’Illiria e la Macedonia. Nella battaglia che seguì contro l’esercito macedone, il reggente di Macedonia Tolomeo Cerauno fu ferito, catturato ed infine decapitato. Devastato e saccheggiato il regno macedone, i Celti rientrarono nella conca carpatica da cui erano partiti senza preoccuparsi di consolidare le conquiste fatte. Il terzo contingente di ottantacinquemila guerrieri, comandati da Akichorio e Brenno, invase la Peonia e puntò verso la Grecia centrale, attratti dagli ingenti tesori che si favoleggiava fossero custoditi nel santuario, la cui fama superava di gran lunga i confini del mondo ellenico.
Durante la marcia, ventimila celti al seguito di Leonnorio e Lutario i separarono dal corpo principale a causa di malintesi e si diressero in Tracia. Il corpo principale, composta da 152.000 fanti e 61.200 cavalieri, attraversò la Tessaglia fino ai confini della Grecia. Poco tempo prima, una precedente spedizione celtica guidata da Cambaule, aveva tentato una incursione che però si era ritirata dopo aver raggiunto la Tracia perché conscia di essere in decisa inferiorità numerica rispetto alle popolazioni greche. Furono i partecipanti a questa incursione che spronarono l’imponente spedizione di Akichorio e Brenno.

Galata morto, Museo Archeologico di Venezia

Brenno sconfisse nuovamente i Macedoni guidati dal generale Sostene, invase la Tessaglia e la devastò, poi si diresse verso la Grecia, fino a giungere nei pressi delle Termopili nel 279 a.C. I Greci, atterriti dall’arrivo dei Celti, furono indecisi se fuggire o rimanere ma conoscendo le sorti toccate alle popolazioni tracie, macedoni e della Peonia vittime dei Celti, si resero conto che in gioco non c’era solo la libertà, come al tempo delle guerre persiane, ma della loro stessa vita. Così, una coalizione di greci formata da combattenti di Locri, di Megara, dell’Etolia, della Macedonia e della Ionia, al comando di un contingente ateniesi si oppose alle orde celtiche. Essi tentarono di fermare i Celti sulla sponda sinistra del fiume Spercheo, in Ftiotide, inviando truppe di cavalleria e fanteria leggera a distruggere i ponti sul fiume per bloccare il guado. Tuttavia, i Celti aggirarono il presidio greco e riuscirono a guadare il fiume più a nord. Una volta giunti sulla sponda destra, discesero facilmente fino a raggiungere le Termopili.
Pausania racconta la battaglia: da un lato i Celti che si lanciarono all’attacco urlando, senza raziocino, armati di sole spade e scudi, privi di armature; dall’altro, i Greci schierati in buon ordine, con i corpi degli schermagliatori che lanciavano sassi, giavellotti e frecce contro i Celti, pur rimanendo sempre lontani da questi e vicino alle truppe greche. Contemporaneamente le triremi ateniesi costeggiarono la riva melmosa fino a portarsi sul fianco sinistro celtico e lo bersagliarono di frecce.
Ancora una volta, le orde barbariche vennero fermate alle porte della Grecia ed i narratori ateniesi celebrarono l’evento paragonandolo alla più famosa battaglia che qui, nel 480 a.C., vide contrapporsi i Persiani contro gli Spartani ed i Tespiesi.
Nell’impossibilità di forzare lo schieramento greco, i Celti si ritirarono nello scompiglio. Brenno allora fece staccare dall’esercito una colonna, ordinandole di invadere l’Etolia, terra di uno degli eserciti coalizzati, per tentare di indebolire il fronte greco. Questa colonna risalì lo Spercheto fino a Ypati e da qui si diresse a sud, lasciandosi sulla sinistra il massiccio del Monte Giona, fino a giungere a Callion, che venne devastata. La manovra funzionò perché gli Etoli abbandonarono la coalizione per andare a difendere le proprie terre. Tuttavia, seppur indebolito, il resto dello schieramento greco si mantenne saldo.
Il grosso dell’esercito celtico, allora, evitò di forzare il blocco delle Termopili ma lo aggirò seguendo i sentieri interni dietro le montagne. Scoperta la manovra, i Greci si imbarcarono sulle triremi ateniesi prima che l’accerchiamento fosse completo e riuscirono a mettersi in salvo. La strada per i Celti era aperta ed essi si diressero verso Delfi. La popolazione atterrita si rivolse all’oracolo, chiedendo se avessero dovuto mettere in salvo i tesori contenuti nel santuario. Ma la risposta del Dio fu incoraggiante per i Greci, perché Apollo rispose che sarebbe stato lui stesso a proteggere il suo tesoro e a sconfiggere i Celti.

Galata suicida, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma

Nei pressi del Santuario, ai 65.000 guerrieri Celti, si opposero gli opliti della Beozia, della Focide e dell’Etolia, regione emergente della Grecia centrale, per un totale di 4.000 armati. Seppure in inferiorità numerica, la battaglia fu favorevole ai greci: gli opliti si scagliarono compatti contro il fronte celtico, impossibilitato ad usare la cavalleria nelle anguste valli di fronte a Delfi; poi ulteriori rinforzi di focesi ed etoli, che conoscevano bene quei luoghi, scesero dai fianchi delle montagne ed assalirono i Celti sui fianchi.
L’esito della battaglia fu dovuto da un lato alla strenua resistenza dei Greci, spronati dall’avere dalla loro parte il dio Apollo come dedussero dai fulmini, dai tuoni, dai terremoti e dalle frane che si riversarono sulle schiere celtiche (Pausania), dall’altra dall’indebolimento dei Celti dovuto alla rigidità dell’inverno greco e alla concomitanza di un'epidemia, e certamente non all’ebrezza da vino narrata dagli antichi. La sconfitta costrinse i Celti a ritirarsi e giunti ad Eracle, il re Brenno ferito durante la battaglia ed incapace di sopportare il dolore si tolse la vita.
Se Delfi sia stata saccheggiata o meno, rimane un dato incerto. Da un lato i Greci esaltarono la loro vittoria, il salvataggio del santuario e la sconfitta subita dai Celti. Un inno delfico inizia proprio narrando la resistenza dei Greci, protetti da Apollo, contro l’invasione dei Galati e la profanazione del tempio. Viceversa, la propaganda romana avvallerà il sacco di Delfi per poi poterne rivendicare il lavaggio dell’onta. La statuaria romana ritrae i Celti che fuggono rincorsi dai Greci, ma che durante la fuga perdono parte del loro bottino; la letteratura narra del bottino di Delfi nascosto nel santuario celtico di Tolosa e recuperato dai Romani nel 105 a.C. dopo aver sconfitto i Volci.
Le gravi perdite subite e la morte di Brenno, provocò la dispersione dell’armata celtica. Una parte fece ritorno nelle pianure danubiane per fondersi nella confederazione celto-illirica degli Scordisci, mentre una parte consistente di guerrieri si diressero verso la Tracia e si ricongiunse, nel 278 a.C., con i ventimila guerrieri di Leonnorio e Lutario.
Seguiti dalle tre tribù dei Trocmi, dei Tectosagi e dei Tolistobogii, i due condottieri vennero chiamati in Asia Minore da Nicomede I, re ellenistico di Bitinia. Costretto a combattere contro un tentativo di usurpazione da parte del fratello Zipoite, Nicomede I li arruolò come mercenari nel proprio esercito. Attraverso il Bosforo Leonnorio e attraverso l’Ellesponto Lutario, le tribù celtiche raggiunsero l’Asia Minore.
Vinto Zipoite ed abbandonata la Bitinia carichi di bottino ma decisi a fermarsi in Asia Minore, si mossero in cerca di un territorio da abitare. Con le loro scorribande minacciarono le ricche città della Ionia, da Ilio a Mileto, dove rapirono le partecipanti alle Tesmoforie per liberarle in cambio di un riscatto. Si scontrarono con Tolomeo in un luogo non noto della Cappadocia, vincendolo. Ma quando vollero minacciare autonomamente la Siria, dopo alcuni scontri dall’esito incerto, furono definitivamente sconfitti dal re seleucide Antioco I. Nella battaglia degli elefanti (268 a.C.) gli appena sedici elefanti di Antioco I seminarono il panico tra la cavalleria celtica, decretando l’esito della battaglia.

Fregio fittile del Tempio di Civitalba

Per circa quaranta anni i Celti, con il loro sistema di rapine e saccheggi, di riscatti e di tributi, tennero in continuo allarme i regni ellenistici.
Tale situazione proseguì fino a quando Attalo I, divenuto re di Pergamo nel 241 a.C., si rifiutò di pagare il consueto tributo ai Celti, scendendo in guerra contro di essi. Nello scontro nei pressi delle fonti del fiume Kaikos, ad est di Pergamo (230 a.C.), Attalo I inflisse una pesante sconfitta ai Celti. Dopo altre vittorie minori, i Celti furono definitivamente relegati in una regione interna dell’Asia Minore, che dal nome greco dei Galati, si chiamò Galatia.
Le vittorie greche furono celebrate mediante la realizzazione di importanti gruppi scultorei e da pitture, edificati ad Atene, a Pergamo, a Delfi; attraverso di esse Attalo I si presentò come il difensore della civiltà ellenica contro la barbarie paragonando la sua vittoria sui Galati alle vittorie del V secolo sui Persiani, accostando quindi il ruolo e la fama di Pergamo a quella di Atene.
Questa stessa forma celebrativa venne ripresa dai Romani a seguito delle vittorie sui Celti in Italia, in particolare dopo la battaglia di Talamone del 225 a.C. e con la realizzazione del frontone fittile del tempio, direttamente collegato a quello del tempio di Civitalba, dove i Celti, carichi di bottino, vengono messi in fuga.

Bibliografia

  • Pausania, Viaggio in Grecia, Delfi e Focide (Libro X), BUR 2011, trad. it. Salvatore Rizzo.
  • Maria Teresa Grassi, I Celti in Italia, Longanesi, 2009.
  • Venceslas Kruta, I Celti e il Mediterraneo, Milano, Jaca Book, 2004.