Nel VI secolo a.C. si ebbe la massima
espansione del mondo celtico. Le popolazioni celtiche popolavano l’Europa
centrale si espansero alla ricerca di nuovi territori. Ampie parti della
popolazione abbandonarono le terre di origine ormai non più sufficienti a
sostenere l’aumento della popolazione.
Attraverso il ver sacrum,
popolazioni di origine celtica varcarono le Alpi spingendosi verso sud, mentre
altre si spostarono verso est, verso quelle che divennero le sedi danubiane.
Circa due secoli dopo, le sedi danubiane
conobbero un ulteriore flusso migratorio di popolazioni celtiche. In Italia,
l’ascesa della potenza romana da un lato bloccò l’espansione celtica verso sud;
dall’altra la pace stipulata tra i Romani ed i Senoni nel 332 a.C. liberò
ingenti forze militari che si riversarono sui Balcani in cerca di maggior
fortuna.
Galata cadente, Museo Archeologico di Venezia
Tuttavia, l’espansione verso sud era
interdetta anche nella penisola Balcanica. La potenza macedone, sotto il regno
di Filippo II e poi di Alessandro Magno costituiva di fatto un ostacolo alla
possibilità di scorrerie. Durante il regno Alessandro Magno, consci della
superiorità macedone, i Celti mantennero sempre rapporto amichevole con il
vicino del sud, fino a scambiarsi doni reciproci (Strabone, Geografia,
VII). I buoni rapporti di vicinato vennero rinsaldati con le ambascerie a
Babilonia nel 324 a.C. che i Celti inviarono presso la corte di Alessandro
Magno per congratularsi con lui della sua conquista; ambasceria che venne fatta
anche da altri popoli mediterranei.
La situazione cambiò con la morte di
Alessandro. Le guerre di successione indebolirono i regni ellenistici sorti
sulle macerie dell’impero universale, aprendo di fatto le porte alle invasioni
celtiche.
Dopo un primo timido tentativo nel 310
a.C., si ebbe una seconda spedizione nel 298 a.C. che venne fermata sul Monte
Emo da Cassandro, re di Macedonia.
Galata morente, Musei Capitolini
La situazione cambiò nel 281 a.C.,
quando dopo la battaglia di Curupedio tra i diodachi di Alessandro la
situazione politica e militare divenne sufficientemente instabile da permettere
un’invasione celtica.
Nel 280 a.C., dalla pianura pannonica,
in cui si era concentrato un gran numero di popolazioni celtiche, prese le
mosse quella che fu la più grande spedizione celtica contro la Grecia. Le
direttrici dell’immensa invasione seguirono tre percorsi. Keretrio guidò il
primo troncone verso la Tracia, il cui esercito era indebolito dagli scontri
contro Seleuco I, la devastò, rese schiavi i Triballi e rientrò nelle pianure
di partenza. Contemporaneamente, Bolgio guidò un secondo contingente verso sud,
risalì con facilità la Morava, fino ad invadere l’Illiria e la Macedonia. Nella
battaglia che seguì contro l’esercito macedone, il reggente di Macedonia
Tolomeo Cerauno fu ferito, catturato ed infine decapitato. Devastato e
saccheggiato il regno macedone, i Celti rientrarono nella conca carpatica da
cui erano partiti senza preoccuparsi di consolidare le conquiste fatte. Il
terzo contingente di ottantacinquemila guerrieri, comandati da Akichorio e
Brenno, invase la Peonia e puntò verso la Grecia centrale, attratti dagli
ingenti tesori che si favoleggiava fossero custoditi nel santuario, la cui fama
superava di gran lunga i confini del mondo ellenico.
Durante la marcia, ventimila celti al
seguito di Leonnorio e Lutario i separarono dal corpo principale a causa di
malintesi e si diressero in Tracia. Il corpo principale, composta da 152.000
fanti e 61.200 cavalieri, attraversò la Tessaglia fino ai confini della Grecia.
Poco tempo prima, una precedente spedizione celtica guidata da Cambaule, aveva
tentato una incursione che però si era ritirata dopo aver raggiunto la Tracia
perché conscia di essere in decisa inferiorità numerica rispetto alle
popolazioni greche. Furono i partecipanti a questa incursione che spronarono
l’imponente spedizione di Akichorio e Brenno.
Galata morto, Museo Archeologico di Venezia
Brenno sconfisse nuovamente i Macedoni
guidati dal generale Sostene, invase la Tessaglia e la devastò, poi si diresse
verso la Grecia, fino a giungere nei pressi delle Termopili nel 279 a.C. I
Greci, atterriti dall’arrivo dei Celti, furono indecisi se fuggire o rimanere
ma conoscendo le sorti toccate alle popolazioni tracie, macedoni e della Peonia
vittime dei Celti, si resero conto che in gioco non c’era solo la libertà, come
al tempo delle guerre persiane, ma della loro stessa vita. Così, una coalizione
di greci formata da combattenti di Locri, di Megara, dell’Etolia, della
Macedonia e della Ionia, al comando di un contingente ateniesi si oppose alle
orde celtiche. Essi tentarono di fermare i Celti sulla sponda sinistra del
fiume Spercheo, in Ftiotide, inviando truppe di cavalleria e fanteria leggera a
distruggere i ponti sul fiume per bloccare il guado. Tuttavia, i Celti
aggirarono il presidio greco e riuscirono a guadare il fiume più a nord. Una
volta giunti sulla sponda destra, discesero facilmente fino a raggiungere le
Termopili.
Pausania racconta la battaglia: da un
lato i Celti che si lanciarono all’attacco urlando, senza raziocino, armati di
sole spade e scudi, privi di armature; dall’altro, i Greci schierati in buon
ordine, con i corpi degli schermagliatori che lanciavano sassi, giavellotti e
frecce contro i Celti, pur rimanendo sempre lontani da questi e vicino alle
truppe greche. Contemporaneamente le triremi ateniesi costeggiarono la riva
melmosa fino a portarsi sul fianco sinistro celtico e lo bersagliarono di
frecce.
Ancora una volta, le orde barbariche
vennero fermate alle porte della Grecia ed i narratori ateniesi celebrarono
l’evento paragonandolo alla più famosa battaglia che qui, nel 480 a.C., vide
contrapporsi i Persiani contro gli Spartani ed i Tespiesi.
Nell’impossibilità di forzare lo
schieramento greco, i Celti si ritirarono nello scompiglio. Brenno allora fece
staccare dall’esercito una colonna, ordinandole di invadere l’Etolia, terra di
uno degli eserciti coalizzati, per tentare di indebolire il fronte greco.
Questa colonna risalì lo Spercheto fino a Ypati e da qui si diresse a sud,
lasciandosi sulla sinistra il massiccio del Monte Giona, fino a giungere a
Callion, che venne devastata. La manovra funzionò perché gli Etoli
abbandonarono la coalizione per andare a difendere le proprie terre. Tuttavia,
seppur indebolito, il resto dello schieramento greco si mantenne saldo.
Il grosso dell’esercito celtico, allora,
evitò di forzare il blocco delle Termopili ma lo aggirò seguendo i sentieri
interni dietro le montagne. Scoperta la manovra, i Greci si imbarcarono sulle
triremi ateniesi prima che l’accerchiamento fosse completo e riuscirono a
mettersi in salvo. La strada per i Celti era aperta ed essi si diressero verso
Delfi. La popolazione atterrita si rivolse all’oracolo, chiedendo se avessero
dovuto mettere in salvo i tesori contenuti nel santuario. Ma la risposta del
Dio fu incoraggiante per i Greci, perché Apollo rispose che sarebbe stato lui
stesso a proteggere il suo tesoro e a sconfiggere i Celti.
Galata suicida, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma
Nei pressi del Santuario, ai 65.000
guerrieri Celti, si opposero gli opliti della Beozia, della Focide e
dell’Etolia, regione emergente della Grecia centrale, per un totale di 4.000
armati. Seppure in inferiorità numerica, la battaglia fu favorevole ai greci:
gli opliti si scagliarono compatti contro il fronte celtico, impossibilitato ad
usare la cavalleria nelle anguste valli di fronte a Delfi; poi ulteriori
rinforzi di focesi ed etoli, che conoscevano bene quei luoghi, scesero dai
fianchi delle montagne ed assalirono i Celti sui fianchi.
L’esito della battaglia fu dovuto da un
lato alla strenua resistenza dei Greci, spronati dall’avere dalla loro parte il
dio Apollo come dedussero dai fulmini, dai tuoni, dai terremoti e dalle frane
che si riversarono sulle schiere celtiche (Pausania), dall’altra
dall’indebolimento dei Celti dovuto alla rigidità dell’inverno greco e alla
concomitanza di un'epidemia, e certamente non all’ebrezza da vino narrata dagli
antichi. La sconfitta costrinse i Celti a ritirarsi e giunti ad Eracle, il re
Brenno ferito durante la battaglia ed incapace di sopportare il dolore si tolse
la vita.
Se Delfi sia stata saccheggiata o meno,
rimane un dato incerto. Da un lato i Greci esaltarono la loro vittoria, il
salvataggio del santuario e la sconfitta subita dai Celti. Un inno delfico
inizia proprio narrando la resistenza dei Greci, protetti da Apollo, contro
l’invasione dei Galati e la profanazione del tempio. Viceversa, la propaganda
romana avvallerà il sacco di Delfi per poi poterne rivendicare il lavaggio
dell’onta. La statuaria romana ritrae i Celti che fuggono rincorsi dai Greci,
ma che durante la fuga perdono parte del loro bottino; la letteratura narra del
bottino di Delfi nascosto nel santuario celtico di Tolosa e recuperato dai
Romani nel 105 a.C. dopo aver sconfitto i Volci.
Le gravi perdite subite e la morte di
Brenno, provocò la dispersione dell’armata celtica. Una parte fece ritorno
nelle pianure danubiane per fondersi nella confederazione celto-illirica degli
Scordisci, mentre una parte consistente di guerrieri si diressero verso la
Tracia e si ricongiunse, nel 278 a.C., con i ventimila guerrieri di Leonnorio e
Lutario.
Seguiti dalle tre tribù dei Trocmi, dei
Tectosagi e dei Tolistobogii, i due condottieri vennero chiamati in Asia Minore
da Nicomede I, re ellenistico di Bitinia. Costretto a combattere contro un
tentativo di usurpazione da parte del fratello Zipoite,
Nicomede I li arruolò come mercenari nel proprio esercito. Attraverso il
Bosforo Leonnorio e attraverso l’Ellesponto Lutario, le tribù celtiche
raggiunsero l’Asia Minore.
Vinto Zipoite ed abbandonata la Bitinia
carichi di bottino ma decisi a fermarsi in Asia Minore, si mossero in cerca di
un territorio da abitare. Con le loro scorribande minacciarono le ricche città
della Ionia, da Ilio a Mileto, dove rapirono le partecipanti alle Tesmoforie
per liberarle in cambio di un riscatto. Si scontrarono con Tolomeo in un luogo
non noto della Cappadocia, vincendolo. Ma quando vollero minacciare
autonomamente la Siria, dopo alcuni scontri dall’esito incerto, furono
definitivamente sconfitti dal re seleucide Antioco I. Nella battaglia degli
elefanti (268 a.C.) gli appena sedici elefanti di Antioco I seminarono il
panico tra la cavalleria celtica, decretando l’esito della battaglia.
Fregio fittile del Tempio di Civitalba
Per circa quaranta anni i Celti, con il
loro sistema di rapine e saccheggi, di riscatti e di tributi, tennero in
continuo allarme i regni ellenistici.
Tale situazione proseguì fino a quando
Attalo I, divenuto re di Pergamo nel 241 a.C., si rifiutò di pagare il consueto
tributo ai Celti, scendendo in guerra contro di essi. Nello scontro nei pressi
delle fonti del fiume Kaikos, ad est di Pergamo (230 a.C.), Attalo I inflisse
una pesante sconfitta ai Celti. Dopo altre vittorie minori, i Celti furono
definitivamente relegati in una regione interna dell’Asia Minore, che dal nome
greco dei Galati, si chiamò Galatia.
Le vittorie greche furono celebrate
mediante la realizzazione di importanti gruppi scultorei e da pitture,
edificati ad Atene, a Pergamo, a Delfi; attraverso di esse Attalo I si presentò
come il difensore della civiltà ellenica contro la barbarie paragonando la sua
vittoria sui Galati alle vittorie del V secolo sui Persiani, accostando quindi
il ruolo e la fama di Pergamo a quella di Atene.
Questa
stessa forma celebrativa venne ripresa dai Romani a seguito delle vittorie sui
Celti in Italia, in particolare dopo la battaglia di Talamone del 225 a.C. e
con la realizzazione del frontone fittile del tempio, direttamente collegato a
quello del tempio di Civitalba, dove i Celti, carichi di bottino, vengono messi
in fuga.
Bibliografia
- Pausania, Viaggio in Grecia, Delfi e Focide (Libro X), BUR 2011, trad. it. Salvatore Rizzo.
- Maria Teresa Grassi, I Celti in Italia, Longanesi, 2009.
- Venceslas Kruta, I Celti e il Mediterraneo, Milano, Jaca Book, 2004.