La più
antica testimonianza dell’uso dell’elefante in guerra è contenuta in alcuni
inni Veda sanscriti, ed è collocabile intorno al XI sec. a.C. Anche secondo
Plinio, (Nat. Hist. VI, 66- 68) furono i sovrani dei regni dell’Indo i primi ad
usare gli elefanti in guerra. Facilmente intuibile, quindi, considerando
l’antichità dei regni, il fatto che quello sia l’habitat degli elefanti
indiani, una specie facilmente addestrabile dall’uomo e l’uso che ne viene
tutt’oggi fatto come animale da lavoro. Nell’India e nel sud-est asiatico
l’elefante accompagna normalmente da secoli la vita dell’uomo.
Da qui, la
consuetudine di utilizzare l’animale in guerra si diffuse verso occidente e gli
elefanti vennero utilizzati successivamente dagli eserciti Persiani: Dario ne
aveva quindici a Gaugamela (331 a.C.) contro Alessandro Magno. Il condottiero
macedone dovette affrontarli anche nella battaglia del fiume Idapse (326 a.C.),
inquadrati nell’esercito indiano del re Poro. E con il Macedone, gli elefanti
da guerra entrano ufficialmente nella storia; di ritorno dalla spedizione in
India, ne riportò con sé cento esemplari.
Dopo di lui,
tutti gli eserciti ellenistici ne schierarono, concentrando l’attacco su un
solo punto per sfondare la linea nemica. Per la battaglia di Ipso del 301 a.C.,
combattuta tra quattro diadochi di Alessandro e sovrani di altrettanti regni
ellenistici, Seleuco portò dall’India, con una marcia di 3.000 miglia, 480
elefanti indiani (secondo Diodoro, 400 secondo Plutarco) contro Antigono che ne
aveva 75.
La vittoria
su Antigono, dove gli elefanti ebbero un ruolo importante, da parte di Seleuco,
convinse il diadoco e re d’Egitto Tolomeo a dotarsi di un contingente di
elefanti da guerra. Essendo la Siria un vitale nodo di contesa con Seleuco,
Tolomeo non poteva essere a lui inferiori in armamenti, pertanto iniziò la
caccia agli elefanti nel Sudan e lungo le coste del Mar Rosso. Qui, presso Theron,
vennero istituiti grandi centri logistici per il mantenimento e l’ammaestramento
dei pachidermi.
È quindi
all’inizio del III secolo a.C. che l’uso degli elefanti da guerra si diffuse in
Africa, usanza certamente importante per Cartagine nelle guerre puniche contro
i Romani.
Diffusi nel
mondo ellenistico, gli elefanti indiani accompagneranno Pirro in Italia o si
scontreranno tra loro nelle guerre tra i regni orientali.
Nella
battaglia di Raphia del 217 a.C., si ha un insolito scontro tra gli elefanti
indiani e quelli africani, che i regni tolemaici (ma ormai anche i Cartaginesi
durante la I e la II Guerra Punica, di nuovo in Italia) catturano sulle coste
dell’Africa. Tolomeo IV d’Egitto affronta Antioco III: battaglia tipica delle
truppe ellenistiche, con falangi armate di sarissa, ormai poca cavalleria ed
elefanti, 73 africani di Tolomeo contro 102 indiani di Antioco. Nonostante la
vittoria di Tolomeo, nello scontro tra elefanti quelli indiani ebbero la meglio
su quelli africani. Polibio (V, 84) racconta lo scontro tra gli elefanti. Come
in una mischia di rugby, gli elefanti si scontrano, incrociano le zanne tra di
loro ed iniziano a spingere con tutta la forza cercando di costringere
l’avversario a perdere terreno, finché il più robusto riesce a spostare
lateralmente la proboscide dell’avversario che è costretto quindi a ripiegare.
Una volta preso sul fianco, lo ferisce con le zanne. Gli elefanti indiani
ebbero la meglio su quelli africani, per il miglior addestramento, la maggior
forza e per l’insofferenza degli elefanti africani per l’odore ed i barriti di
quelli indiani.
È necessario
a questo punto specificare di quali specie di elefanti si sta parlando. Per
l’elefante indiano, si è certi che esso fosse l’Elephas maximus indicus,
cioè l’attuale elefante indiano. Incerto invece è stabilire quale fosse
l’elefante africano utilizzato dai Re tolemaici e dai Cartaginesi. Due infatti
sono le attuali specie di elefante africano. Uno è il comune elefante africano
che vive nel centro Africa, il Loxodonta africana, l’altro è l’elefante
delle foreste e dell’Atlante (Loxodonta cyclotis). Il primo è più grande
dell’elefante indiano, mentre il secondo è più piccolo e la sua altezza
raramente supera i 2,5 metri contro i 3,5/4 metri del primo. Fino al VI secolo
d.C., il nord Africa e la catena dell’Atlante era abitata da una specie di
elefante molto simile a questa, che si estinse a seguito della caccia
dell’uomo; è Isidoro di Siviglia (Etymologiae XII, 2, 16) che testimonia nel VI
sec. d.C. la totale scomparsa degli elefanti dal Nord Africa.
Che gli
elefanti africani utilizzati in guerra fossero più piccoli di quelli indiani
dell’epoca, è suffragato da molte testimonianze antiche: è attestato da Onesicrito
di Astipalea, da Polibio, da Plinio e da Livio. E questo pone a favore della
tesi dell’utilizzo del tipo simile al Loxodonta cyclotis da parte di
Tolomei e Cartaginesi.
Tuttavia, le
fonti iconografiche, pitture e monete, degli elefanti cartaginesi mostrano una
fisionomia molto più simile al Loxodonta africana che all’antico Loxodonta
cyclotis, in cui posizione alta della testa e la direzione delle zanne
verso il basso sembrerebbero identificare l’antico elefante cartaginese con un Loxodonta
africana.
A quali
delle due specie siano appartenuti, le fonti concordano però nel fatto che gli
elefanti indiani erano da preferire in guerra, e non per le dimensioni ma per
la maggior bellicosità e la maggior facilità di addestramento.
Affidato a
specialisti indiani, l’addestramento, la cura e la guida fu sempre appannaggio
di quest’ultimi. Dionisio di Alicarnasso (XX, 12, 3; 1, 6- 8) riferisce che i diciannove
elefanti indiani di Pirro ad Ascoli erano guidati da indiani. E l’affidamento
ad indiani avvenne anche quando l’esercito usava gli elefanti africani. Polibio
ricorda (I, 40; III, 46) come i mahouts dei Cartaginesi durante la
battaglia di Palermo (251 a.C.) nella I Guerra Punica erano indiani, così come
al passaggio del Rodano e nella battaglia del Metauro (207 a.C.) nella II Guerra
Punica. Anche Vegezio (III, 24) parla di “indiani che governavano gli
elefanti”, come se gli Indiani avessero il monopolio dell’addestramento degli
elefanti.
Schieramento ed uso tattico
Secondo Claudio
Eliano (Sulla natura degli animali), l’unità di base dello schieramento
degli elefanti era composta da un singolo elefante, chiamata zoarchia, mentre
lo schieramento completo era chiamato falange, formata da sessantaquattro
pachidermi. Per passare dalla zoarchia alla falange si moltiplicava per due il
numero dei pachidermi, così due zoarchie formavano una therarchia (2 elefanti),
due di queste una epiterarchia (4 pachidermi), e poi di seguito una ilarchia (8
elefanti), una elefantarchia (16 elefanti), una ceratarchia (32 elefanti, cioè
mezza falange) ed infine la falange (64 elefanti).
Si immagini
un esercito, macedone, romano o gallico, che veda per la prima volta di fronte
a sé degli elefanti schierati in battaglia. Animali mai visti prima, dalla strana
forma che emanano un forte odore e dei forti barriti. Lo sconcerto che doveva
prendere i soldati era sicuramente forte, poiché non sapevano cosa si fossero
dovuti aspettare da quelle creature enormi. Consci di questo effetto
terrorizzante sugli avversari, i sovrani che li usavano, li paravano in modo
bizzarro, li tingevano a colori forti e variopinti, li coprivano di lamine di
ferro sulla testa e sulle spalle, anche per difenderli dai dardi avversari.
Usanza, questa, tipica degli eserciti indiani ed ellenistici.
Superata la
prima fase dell’effetto psicologico, gli elefanti venivano lanciati contro le
linee nemiche per sfondare il fronte. Se si pensa alla compattezza di una
falange ellenistica, ben si comprende la necessità di tentare di romperla con
masse d’urto consistenti. Gli elefanti, allora, venivano lanciati tutti contro
un determinato ristretto settore dello schieramento, per scompaginarlo. Alle
zanne venivano applicate delle punte d’acciaio, per rendere il colpo ancor più
micidiale; già Plinio descrisse la meticolosità con cui l’animale, non ancora
in cattività, si prendeva cura delle zanne. A quel punto, la fanteria che
seguiva gli elefanti poteva infiltrarsi tra gli spazi aperti dai pachidermi.
Per questo
motivo gli elefanti venivano schierati quasi sempre di fronte alle linee.
Lanciati contro gli avversari, a questi non rimaneva che tentare di resistergli
oppure di lanciare una controcarica di elefanti contro i primi, come nella
battaglia Raphia dove contro la carica degli elefanti indiani a Tolomeo non
rimase che lanciargli contri i propri, anche se quest’ultimi furono messi in
fuga, dopo la spinta zanne contro zanne.
Sebbene
addestrati alla zuffa, la loro maggiore utilità fu quella di spaventare i
cavalli. Era contro la cavalleria l’uso migliore che ne poteva essere fatto,
per via del timore che i cavalli hanno dell’elefante. Nella battaglia del fiume
Idapse, il re indiano Poro dispose a distanza sufficientemente grande i suoi
elefanti per far sì che la cavalleria di Alessandro, filtrando tra gli elefanti
perdesse la sua efficienza. Allo stesso modo, a Ipso nel 301 a.C., gli elefanti
di Seleuco impedirono alla vittoriosa cavalleria di Demetrio di ritornare in
battaglia e di convergere al centro da dietro. Lo stesso Antioco I, re seleucide,
riuscì a vincere l’armata celtica nel 268 a.C., grazie ad appena sedici
elefanti che seminarono il panico tra la cavalleria celtica. Più che come arma
di attacco, gli elefanti allora erano efficienti nel neutralizzare l’eventuale
superiorità della cavalleria avversaria.
Con l’avvio
della fase ellenistica inizia anche l’usanza di dotare l’animale di una torre
posta sopra la schiena, sulla quale prendevano posto dei soldati dotati di
archi e di sarisse. Polibio racconta (V, 85) come a Raphia, nello scontro tra
elefanti, mente i pachidermi africani e indiani di Egiziani e Siriani si
spingevano tra loro, i soldati dentro le torri colpivano gli avversari con le
sarisse.
Quale fosse
il numero dei soldati, varia con le fonti: tre secondo Plinio, quattro secondo
Livio, dai 10 ai 15 secondo Appiano e Philostrato, fino all’esagerazione di 32
riportato nel Libro I dei Maccabei.
Se si
confronta questi numeri con le fonti iconografiche e con il peso che può
trasportare al massimo un elefante, tra i 12 e i 14 quintali, probabilmente il
numero reale si aggira tra i tre e i quattro armati.
La presenza
della torre, almeno sugli elefanti degli eserciti ellenistici, è comprovata da
un elevato numero di fonti, iconografiche, scultoree, numismatiche e scritte.
Tali testimonianze,
però, diminuiscono nel caso degli elefanti dell’esercito cartaginese. Le fonti
romane raramente parlano delle torri sul dorso degli elefanti da loro
affrontati durante le guerre puniche. Del resto, lo scopo principale era quello
di terrorizzare e disorientare il nemico. Ma l’assenza della torre, che
comunque non può essere generalizzata, oltre che determinata da motivi tattici
poteva nascere da situazioni contingenti. Ad esempio, l’eccezionalità
dell’intervento romano in Africa e la necessità di approntare rapidamente un
esercito per affrontarli, fu la causa per cui gli ottanta elefanti che Annibale
aveva a Zama erano montati dal solo guidatore.
Tuttavia, se
per gli elefanti Cartaginesi incontrati dai Romani durante la I Guerra Punica
nulla si può dire, Livio riporta (XXVIII, 14, 4) che nella battaglia di Baecula
in Spagna (208 a.C.) gli elefanti dei Cartaginesi possedevano delle torri
fortificate.
L’impatto
che gli elefanti avevano sulle linee nemiche e il timore che incutevano sulla
cavalleria erano controbilanciati dalla sua instabilità psichica, e dalle
condizioni di alterazione dovute all’assunzione di liquori e droghe che
venivano somministrate all’animale prima della battaglia. Non difficilmente il
pachiderma si atterriva durante la battaglia, sia per il frastuono sia per i
colpi che poteva ricevere sulle parti più sensibili, come la proboscide.
Nella battaglia di Zama (202 a.C.), Scipione fece posizionare davanti al suo schieramento numerosi suonatori e battitori per provocare un forte rumore, espediente che funzionò e che fu rovinoso per la cavalleria cartaginese investita dagli elefanti atterriti in fuga. Nella battaglia di Benevento (275 a.C.), Livio racconta come il barrito di un cucciolo di elefante ferito provocò un estremo disordine tra gli altri elefanti che tornarono indietro investendo gli epiroti.
Il controllo
dell’animale è sempre stato il tallone d’Achille di questa arma altrimenti
micidiale. I mahouts portavano con sé un piccolo arpione, con il quale
avrebbero dovuto uccidere l’animale che si fosse diretto, imbizzarrito, contro
il proprio fronte, assestandogli un deciso colpo tra la testa ed il collo,
dietro l’orecchio.
Il problema
del controllo era meno sentito per la specie asiatica che per quella africana, sempre
più diffusa perché di più facile reperimento per le potenze del Mediterraneo.
Nonostante
fosse un animale instabile che poteva anche risultare fatale per il proprio
esercito, non va sottovalutato l’effetto complessivamente positivo che questo
ebbe negli eserciti che lo utilizzarono. Il grande servizio che gli elefanti
potevano rendere in battaglia è dimostrato dalle condizioni di pace imposte dai
Romani ai Cartaginesi alla fine della II Guerra Punica: la consegna di tutti gli
elefanti domati e la proibizione di addestrarne altri, che fa capire cosa
pensassero i Romani degli elefanti sul campo di battaglia.
I Romani e gli elefanti
I Romani videro
per la prima volta gli elefanti contro Pirro. E come gli altri avversari prima
di loro, anch’essi rimasero atterriti dalla carica dei venti pachidermi indiani
portati dal re dell’Epiro. La battaglia di Eraclea (280 a.C.) si risolse,
grazie alla carica degli elefanti, in una sconfitta per i Romani.
Anche ad
Ascoli (279 a.C.) i pachidermi di Pirro sconfissero i Romani che per
affrontarli avevano costruito trecento carri da guerra, inutilmente.
Dopo queste
prime esperienze negative, i Romani addestrarono speciali reparti per
neutralizzare gli elefanti, esercitandoli sugli animali catturati al nemico.
Nella successiva battaglia di Benevento (275 a.C.) i Romani riuscirono a
spaventare gli elefanti, con le fiamme e con una pioggia di catrame, resina e
zolfo bollenti; oppure, dirigendo i giavellotti e le frecce là dove l’animale
era più sensibile, cioè la proboscide.
Dopo Pirro,
i Romani si trovarono contro gli elefanti cartaginesi in Sicilia. Questa volta
però, nella battaglia di Palermo del 251 a.C.
i cento elefanti cartaginesi fallirono completamente e furono catturati
dai Romani (Plinio VIII, 16), per essere portati a Roma ed uccisi nei giochi
gladiatori.
I Romani li
affrontarono nuovamente in Italia, durante la spedizione di Annibale. Livio
racconta come i ventidue più illustri cavalieri della XIII legione, vennero
schiacciati dai pachidermi di Magone durante la battaglia nei pressi di
Mediolanum nel 203 a.C.
Negli anni
successivi gli elefanti consegnati dai Cartaginesi dopo la loro sconfitta,
furono utilizzati dai Romani stessi contro l’esercito ellenistico di Filippo V
di Macedonia. Evidentemente, la falange macedone costituiva uno scoglio
effettivamente difficile da superare e l’uso degli elefanti poteva essere
risolutivo. Nella battaglia di Cinocefale del 197 a.C., i Romani li schierarono
sul loro fianco destro, opponendoli alla sinistra della falange macedone (Livio,
XXXI, 36, 4).
Nella
battaglia di Magnesia (190 a.C.), i Romani schierarono sedici elefanti africani
contro cinquantaquattro elefanti indiani schierati dal seleucita Antioco III.
Secondo Livio (XXXVII, 39, 13), consigliere di Antioco era Annibale, che
avrebbe affermato come gli elefanti africani non avrebbero potuto resistere a
quelli indiani, neanche a parità di numero, essendo i secondi di molto
superiori per forza, grandezza e per coraggio. Indipendentemente dalla
veridicità della testimonianza, l’affermazione sarebbe comunque vera, se si
ricorda la battaglia di Raphia. Purtroppo per Antioco III, in quella battaglia
l’esito venne deciso dalla fanteria, ormai assuefatta ad affrontare gli
elefanti.
L’uso degli
elefanti da parte dell’esercito romano proseguì per un secolo e mezzo. L’ultimo
grande scontro che li vide coinvolti fu nella battaglia di Tapso (46 a.C.),
dove il vincitore Giulio Cesare, sbaragliati i pompeiani, catturò i loro sessanta
elefanti.
Dopo Cesare
gli elefanti scomparvero dai campi di battaglia romani e vennero solo
utilizzati come segno di prestigio, come nel caso dell’imperatore Claudio che
si recò in Britannia con essi, solo per mostrare la sua magnificenza e la potenza
di Roma alle popolazioni celtiche appena sottomesse.
Annibale
L’elefante
compare nelle guerre dell’Occidente a partire dal III sec. a.C. Già poco dopo i
Tolomei, anche i Cartaginesi iniziarono ad utilizzare gli elefanti in
battaglia, prendendo forse le mosse dall’invasione siracusana in Africa del
310-307 a.C. condotta dal tiranno Agatocle, alleato del sovrano ellenistico
Tolomeo d’Egitto.
Dalle fonti
scritte, però, il loro uso è attestato a partire dalla I Guerra Punica, cioè
circa quaranta anni dopo. La data precedente allora, assume un nuovo valore,
proprio perché sono necessari alcuni decenni per poter allevare un elefante in
cattività ed addestrarlo, il che riporta l’avvio dell’utilizzo all’inizio del
III secolo.
Per necessità
logistiche, considerata la difficoltà di approvvigionarsi di elefanti
provenienti dall’India, i Cartaginesi utilizzarono gli elefanti del nord Africa
e delle montagne dell’Atlante. Catturati con grandi battute di caccia, venivano
poi allevati ed addestrati presso Cartagine. Secondo Strabone (XVII, 832), a
Cartagine vi erano delle stalle-caserme capaci di contenere trecento elefanti
da guerra.
Questi erano
sicuramente più piccoli e più difficilmente addestrabili, ma di più facile
reperimento.
Nonostante
le esperienze negative della I Guerra Punica, quando l’ammiraglio cartaginese
Annone portò con la sua flotta in Sicilia gli elefanti che finirono catturati
dal console Lucio Cecilio Metello ed inviati a Roma (Diodoro XXIII, 8), i
Cartaginesi utilizzarono i pachidermi nelle successive guerre, fino
all’avventura di Annibale.
È con questa
spedizione che gli elefanti vengono associati ai Cartaginesi, ed ancor più ad
Annibale.
Nella lunga
traversata, gli elefanti accompagnano le truppe cartaginesi che spesso devono
affrontare grandi difficoltà per continuare a portarli con loro. Nell’attraversamento
del fiume Rodano, per facilitare le operazioni, due elefanti femmine furono
condotte per prime sulle grandi zattere di legno (circa 25 metri di larghezza),
poiché dovevano attirare i maschi e indurli a seguirle, come puntualmente
avvenne.
Certamente
l’impresa che destò più stupore fu l’attraversamento delle Alpi, individuato
nel 2016 nel Colle delle Traversette (2.950 m) nei pressi del Monviso, anche se
dopo il passaggio un solo elefante restò ad Annibale (Iuven. X 158). Forse il
più valoroso, quello di cui Plinio riporta il nome, Surus, per via dell’unica
zanna che possedeva.
Nonostante
ciò il condottiero cartaginese ricevette di rinforzo truppe ed elefanti,
utilizzati dai suoi luogotenenti durante le battaglie di alleggerimento contro
i Romani.
Ed elefanti
ebbe per la battaglia di Zama, catturati sulle montagne dell’Atlante in gran
fretta da Annone, per la difesa della Spagna e per, appunto la battaglia di
Zama, i cui ottanta elefanti di Annibale, non solo non furono determinanti alla
vittoria, ma la loro presenza risultò nefasta.
Bibliografia
§
Richard Glover, The Elephant in
ancient war, in The Classical Journal, XXXIX, 5, 1944.
§
Cesare Cantù, Sulla guerra,
Editore G. Pomba, 1843.
§
Affinati Riccardo, Storia militare
degli animali, Soldiershop Publishing, 2016.
Figurini
Hät
8023 (1/72) - 6 elefanti, ciascuno con il conducente e due sulla torre.
Imbasettamento
§
4 basette 40 x 80 con un elefante con
torretta;
§ 2 basette 40 x 80 con un elefante senza torretta.
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