domenica 29 marzo 2020

Carri celti

Evolutosi dal carro a quattro ruote, di cui alcuni esemplari sono stati rinvenuti in tombe celtiche di personalità di spicco vissute nel V sec. a.C., il carro da guerra è uno degli emblemi delle popolazioni celtiche.
La ricchezza della loro fattura, la presenza di elementi decorativi, il loro ritrovamento solo in alcuni contesti quali le tombe di personalità sicuramente influenti, fanno pensare che i carri fossero appannaggio quasi esclusivo della nobiltà.
I carri avevano ruote in legno con i raggi; i cerchioni ed i mozzi in ferro, fissati agli assali con giunture anch’esse di ferro. La piattaforma, che poteva ospitare due persone, era in legno, mentre le fiancate potevano essere sia in legno sia in vimini intrecciato.
Erano trainati da una coppia di cavalli legati col giogo all’asse centrale, dotati di morsi flessibili, finimenti e redini decorati.

Nobile su carro da guerra

Delle due persone che stavano sulla piattaforma, uno era l’auriga mentre l’altro era il nobile o il guerriero che scagliava i giavellotti contro il nemico, una volta che il carro si fosse avvicinato in corsa agli avversari.
Tito Livio racconta come durante la battaglia del Sentino (295 a.C.) la cavalleria romana stesse avendo la meglio su quella celtica fino a quando l’attacco dei carri celti riuscì a ribaltare la situazione, sbaragliando la cavalleria romana e mettendola in fuga.

Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore. Così la cavalleria romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa” (Ab urbe condita X.28).

Tuttavia, l’effetto del carro era più psicologico che reale. Finito l’effetto sorpresa e l’impatto emotivo, il carro aveva delle caratteristiche belliche decisamente inferiori a quelle della cavalleria.

Un guerriero sul carro

Il carro poteva imprimere un forte impatto se lanciato in corsa, ma era meno versatile sia a causa delle asperità del terreno sia nelle capacità di frenata, di manovra, di scartamento laterale, di ritirata.
Di due cavalli e due uomini, come risorse impegnate dal carro, si aveva a disposizione un solo combattente rispetto a due cavalieri.
Così, dal III secolo a.C. circa, i Celti lo sostituirono lentamente con la cavalleria e per circa un secolo i due corpi convissero; venne mantenuto in Gallia Cisalpina e, almeno tra i nobili, fino al II secolo a.C. in Gallia Transalpina, utilizzandolo principalmente come mezzo di rappresentanza o come strumento con cui compiere straordinarie prodezze e con cui dimostrare la propria abilità fisica.

In Britannia

La prima spedizione romana in Gran Bretagna fu poco più di una esplorazione condotta da Giulio Cesare nel 55 a.C., presumibilmente per bloccare i rinforzi provenienti dalle tribù dell’isola a quelle del continente. Contrariamente a quanto avveniva in Gallia, in Britannia i carri erano ancora utilizzati in battaglia e l'imboscata subita da una legione, circondata dalla cavalleria e dai carri dei Britanni, fornì lo spunto a Cesare per descrivere le loro tattiche.

Un guerriero sul carro scaglia una lancia

Nella lotta dei carri, i Britanni iniziano percorrendo tutto il campo e lanciando i giavellotti; in genere il terrore prodotto dai cavalli ed il rumore delle ruote sono sufficienti a disordinare i ranghi avversari. Poi, dopo essersi fatti strada tra le schiere della propria cavalleria, i guerrieri saltano giù dal carro e combattono a piedi. Nel frattempo, i loro auriga si ritirano a breve distanza dalla battaglia e mettono i carri in una posizione tale che i loro padroni, se costretti a ritirarsi, hanno la possibilità di rientrate agevolmente tra le proprie linee. In questo modo associano alla mobilità della cavalleria la forza di resistenza della fanteria; con l'addestramento e la pratica quotidiana acquistano una competenza tale che gli permette di governare i cavalli al galoppo anche su una ripida pendenza, di controllarli e girarli in breve tempo. Possono correre lungo il timone, salire sul giogo e rientrare nel carro con la stessa velocità del lampo” (De bello gallico, IV.33).

L'anno successivo vi fu una seconda spedizione e ancora una volta l’uso dei carri seminò il panico. I Britanni simularono un arretramento per sganciarsi dalla fanteria pesante romana troppo lenta per inseguirli e per attirare la cavalleria romana in una imboscata, dove la cavalleria britanna ed i carri si scagliarono addosso ai romani.
Nella battaglia contro Cassivellauno, Cesare racconta di circa quattromila uomini sui carri, anche se è probabile che il numero si riferisca al totale e non al numero di guerrieri, riducendo il numero dei carri alla metà.

La regina Boudicca sul carro, mostra la testa del romano che l’ha umiliata

Dopo Cesare, primo a raccontare dei carri celti fu Diodoro Siculo: “Nei loro viaggi e quando vanno in battaglia i Galli usano carri trainati da due cavalli, che portano l’auriga e il guerriero; e quando incontrano cavalleria nei combattimenti scagliano prima i loro giavellotti contro il nemico e poi scendono dai loro carri e si uniscono alla battaglia con le loro spade. Alcuni di loro disprezzano la morte a tal punto da entrare nei pericoli della battaglia senza armature protettive e con non più di una cintura intorno alla vita. Portano in guerra anche i loro uomini liberi per farsi servire da loro, scegliendoli tra i poveri, e questi inservienti fanno da auriga e da portatori di scudi” (Biblioteca Storica, libro V, 29).

Un secolo e mezzo dopo, i carri sono ancora in uso, questa volta presso i caledoniani, molto più a nord, contro Agricola, governatore della provincia. Tacito, nel 98 d.C., racconta che durante la battaglia di Monte Graupio (83 d.C.) un elevato numero di carri invase la pianura e che con le loro evoluzioni produssero un terribile rumore. Poiché già Cesare aveva notato il frastuono, sembrerebbe che le evoluzioni fossero fatte proprio per disorientare il nemico. Tacito inoltre afferma che è l’auriga il personaggio di rango più alto, mentre è il suo servo che salta dal carro e si getta nella battaglia (Vita di Agricola, XII).
Se per Tacito è il nobile che rimane sul carro, ecco che la regina Boudicca guida i Britanni alla rivolta (61 d.C.), accompagnata sul carro dalle sue due figlie oltraggiate (Tacito, Annali, XIV.35).

Boudicca e le figlie oltraggiate

Carri falcati?

Alcuni anni prima, al tempo di Claudio nel 43 d.C., il primo geografo romano Pomponio Mela, scrisse dei Britanni che: “combattono non solo a cavallo e a piedi, ma anche con bighe e carri (bigis et curribus), e sono armati alla maniera dei Galli. Chiamano quei carri covinnus che sono circondati da falci intorno alle navate (falcatis axibus)” (De Chorographia, III.43).
Con questa testimonianza, innanzitutto viene tramandata una differenza tra due tipologie di carri usati dai Britanni, su cui si tornerà in seguito.
Ma soprattutto, Pomponio Mela parla di carri falcati, così come ne parlano altri scrittori a lui contemporanei (Marco Anneo Lucano, Pharsalia, I 426; Silio Italico, Punica, XVII 417), seppur poeti non testimoni diretti. Anche Sesto Giulio Frontino, però, governatore della Gran Bretagna dal 76-78 d.C., narra di come Caio Giulio Cesare riuscì a tenere sotto controllo le quadrighe falcate (falcatas quadrigas) dei Britanni piantando picchetti nel terreno (Stratagemata, II.3.18). Cesare, però, non parla mai di doversi difendersi da falcatas quadrigas. Anzi, racconta proprio che i carri erano posti in posizione arretrata rispetto ai guerrieri.


Molto più tardi, nel 551 d.C., Giordane nella sua storia dei Goti, commentò che i Britanni, guidavano “bighe e carri a due cavalli falcati [bigis curribusque falcatis] che comunemente chiamano essedae” (Getica, I.2.15). Ma ormai, neanche lui era più un testimone diretto.
Tuttavia, neanche Agricola, anche lui comandante romano che guidò le legioni contro i Britanni nella battaglia di Monte Graupio, descrisse i carri come falcati.
Non ci sono testimonianze archeologiche di carri falciati in Gran Bretagna, anche se sono stati trovati dei cerchioni di ferro senza saldatura (un'invenzione celtica) all’interno di tombe con resti di bighe. Così come nelle monete coniate dal magistrato romano Lucio Ostilio Saserna, i carri celti non hanno lame.
Quindi il carro da guerra dei Britanni quasi certamente non aveva falci. Flavio Arriano, nel II sec. d.C., distingue esplicitamente tra i carri persiani da quelli dei Britanni, che “usano carri a due cavalli, trainati da cavalli piccoli e brutti. I loro carri leggeri a due ruote sono adatti a correre su ogni tipo di terreno ed i poveri cavalli a sopportare sofferenze continue. Tra gli asiatici, i persiani molto tempo, a partire dal tempo di Ciro, fa praticavano l'uso di carri dotati di falce e cavalli corazzati” (Tattica, XIX).


I cavalli descritti da Arriano, sono probabilmente simili ai pony Exmoor, il più antichi cavalli originari della Gran Bretagna.

Essedum e Covinnus

Già Pomponio Mela distinse i due diversi tipi di carri in uso presso i Britanni, probabilmente corrispondenti alle parole latine biga e currus, distinzione che riportò secoli dopo anche Giordane.
Cesare, ad esempio, usava la parola di origine celtica essedum, bighe guidate da essedarii, per indicare i carri che dovette affrontare in Britannia, mentre Tacito chiamava covinnarius l’auriga del carro.
Partendo da queste osservazioni, si può assumere la differenza tra i due mezzi così come suggerita da Albert Lionel Frederick Rivet, e concludere che una biga è un essedum e un currus è un covinnus (A Note on Scythed Chariots, 1979).
Ma il covinnus (parola di origine celtica) esisteva anche a Roma, ed era un carro da viaggio a quattro ruote, coperto, relativamente comodo, trainato da due cavalli o da muli a passo rapido.
Sembra allora verosimile che Pomponio Mela e Silio Italico abbiano voluto affermare che il covinnus dei Britanni avesse avuto le falci per licenza poetica, come un espediente per enfatizzare il fatto che il covinnus dei Britanni non era il comodo mezzo di trasporto conosciuto a Roma.


Bibliografia

·       Gaio Giulio Cesare, La guerra gallica, BUR Rizzoli, 2014, trad. it F. Brindesi.
·       Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, BUR Rizzoli, 1987, trad. it. B. Ceva.
·   Gabriele Esposito, I guerrieri dell’Italia antica. Gli eserciti italici dalla fondazione di Roma ad Annibale, LEG Edizioni 2018.

Figurini

Hät 8140 (1/72) Carri celti con regina – 3 carri + 2 figure da una diversa scatola di Celti (Italeri 6022).

Imbasettamento

  • 1 carro con regina;
  • 1 carro con nobile (della Italeri 6022 );
  • 1 carro con guerriero (della Italeri 6022).
Le tre donne (le figlie di Boudicca) sono utilizzate per altre basette e diorami.

venerdì 20 marzo 2020

Elefanti da guerra


La più antica testimonianza dell’uso dell’elefante in guerra è contenuta in alcuni inni Veda sanscriti, ed è collocabile intorno al XI sec. a.C. Anche secondo Plinio, (Nat. Hist. VI, 66- 68) furono i sovrani dei regni dell’Indo i primi ad usare gli elefanti in guerra. Facilmente intuibile, quindi, considerando l’antichità dei regni, il fatto che quello sia l’habitat degli elefanti indiani, una specie facilmente addestrabile dall’uomo e l’uso che ne viene tutt’oggi fatto come animale da lavoro. Nell’India e nel sud-est asiatico l’elefante accompagna normalmente da secoli la vita dell’uomo.
Da qui, la consuetudine di utilizzare l’animale in guerra si diffuse verso occidente e gli elefanti vennero utilizzati successivamente dagli eserciti Persiani: Dario ne aveva quindici a Gaugamela (331 a.C.) contro Alessandro Magno. Il condottiero macedone dovette affrontarli anche nella battaglia del fiume Idapse (326 a.C.), inquadrati nell’esercito indiano del re Poro. E con il Macedone, gli elefanti da guerra entrano ufficialmente nella storia; di ritorno dalla spedizione in India, ne riportò con sé cento esemplari.




Dopo di lui, tutti gli eserciti ellenistici ne schierarono, concentrando l’attacco su un solo punto per sfondare la linea nemica. Per la battaglia di Ipso del 301 a.C., combattuta tra quattro diadochi di Alessandro e sovrani di altrettanti regni ellenistici, Seleuco portò dall’India, con una marcia di 3.000 miglia, 480 elefanti indiani (secondo Diodoro, 400 secondo Plutarco) contro Antigono che ne aveva 75.
La vittoria su Antigono, dove gli elefanti ebbero un ruolo importante, da parte di Seleuco, convinse il diadoco e re d’Egitto Tolomeo a dotarsi di un contingente di elefanti da guerra. Essendo la Siria un vitale nodo di contesa con Seleuco, Tolomeo non poteva essere a lui inferiori in armamenti, pertanto iniziò la caccia agli elefanti nel Sudan e lungo le coste del Mar Rosso. Qui, presso Theron, vennero istituiti grandi centri logistici per il mantenimento e l’ammaestramento dei pachidermi.
È quindi all’inizio del III secolo a.C. che l’uso degli elefanti da guerra si diffuse in Africa, usanza certamente importante per Cartagine nelle guerre puniche contro i Romani.
Diffusi nel mondo ellenistico, gli elefanti indiani accompagneranno Pirro in Italia o si scontreranno tra loro nelle guerre tra i regni orientali.



Nella battaglia di Raphia del 217 a.C., si ha un insolito scontro tra gli elefanti indiani e quelli africani, che i regni tolemaici (ma ormai anche i Cartaginesi durante la I e la II Guerra Punica, di nuovo in Italia) catturano sulle coste dell’Africa. Tolomeo IV d’Egitto affronta Antioco III: battaglia tipica delle truppe ellenistiche, con falangi armate di sarissa, ormai poca cavalleria ed elefanti, 73 africani di Tolomeo contro 102 indiani di Antioco. Nonostante la vittoria di Tolomeo, nello scontro tra elefanti quelli indiani ebbero la meglio su quelli africani. Polibio (V, 84) racconta lo scontro tra gli elefanti. Come in una mischia di rugby, gli elefanti si scontrano, incrociano le zanne tra di loro ed iniziano a spingere con tutta la forza cercando di costringere l’avversario a perdere terreno, finché il più robusto riesce a spostare lateralmente la proboscide dell’avversario che è costretto quindi a ripiegare. Una volta preso sul fianco, lo ferisce con le zanne. Gli elefanti indiani ebbero la meglio su quelli africani, per il miglior addestramento, la maggior forza e per l’insofferenza degli elefanti africani per l’odore ed i barriti di quelli indiani.
È necessario a questo punto specificare di quali specie di elefanti si sta parlando. Per l’elefante indiano, si è certi che esso fosse l’Elephas maximus indicus, cioè l’attuale elefante indiano. Incerto invece è stabilire quale fosse l’elefante africano utilizzato dai Re tolemaici e dai Cartaginesi. Due infatti sono le attuali specie di elefante africano. Uno è il comune elefante africano che vive nel centro Africa, il Loxodonta africana, l’altro è l’elefante delle foreste e dell’Atlante (Loxodonta cyclotis). Il primo è più grande dell’elefante indiano, mentre il secondo è più piccolo e la sua altezza raramente supera i 2,5 metri contro i 3,5/4 metri del primo. Fino al VI secolo d.C., il nord Africa e la catena dell’Atlante era abitata da una specie di elefante molto simile a questa, che si estinse a seguito della caccia dell’uomo; è Isidoro di Siviglia (Etymologiae XII, 2, 16) che testimonia nel VI sec. d.C. la totale scomparsa degli elefanti dal Nord Africa.
Che gli elefanti africani utilizzati in guerra fossero più piccoli di quelli indiani dell’epoca, è suffragato da molte testimonianze antiche: è attestato da Onesicrito di Astipalea, da Polibio, da Plinio e da Livio. E questo pone a favore della tesi dell’utilizzo del tipo simile al Loxodonta cyclotis da parte di Tolomei e Cartaginesi.



Tuttavia, le fonti iconografiche, pitture e monete, degli elefanti cartaginesi mostrano una fisionomia molto più simile al Loxodonta africana che all’antico Loxodonta cyclotis, in cui posizione alta della testa e la direzione delle zanne verso il basso sembrerebbero identificare l’antico elefante cartaginese con un Loxodonta africana.
A quali delle due specie siano appartenuti, le fonti concordano però nel fatto che gli elefanti indiani erano da preferire in guerra, e non per le dimensioni ma per la maggior bellicosità e la maggior facilità di addestramento.
Affidato a specialisti indiani, l’addestramento, la cura e la guida fu sempre appannaggio di quest’ultimi. Dionisio di Alicarnasso (XX, 12, 3; 1, 6- 8) riferisce che i diciannove elefanti indiani di Pirro ad Ascoli erano guidati da indiani. E l’affidamento ad indiani avvenne anche quando l’esercito usava gli elefanti africani. Polibio ricorda (I, 40; III, 46) come i mahouts dei Cartaginesi durante la battaglia di Palermo (251 a.C.) nella I Guerra Punica erano indiani, così come al passaggio del Rodano e nella battaglia del Metauro (207 a.C.) nella II Guerra Punica. Anche Vegezio (III, 24) parla di “indiani che governavano gli elefanti”, come se gli Indiani avessero il monopolio dell’addestramento degli elefanti.

Schieramento ed uso tattico

Secondo Claudio Eliano (Sulla natura degli animali), l’unità di base dello schieramento degli elefanti era composta da un singolo elefante, chiamata zoarchia, mentre lo schieramento completo era chiamato falange, formata da sessantaquattro pachidermi. Per passare dalla zoarchia alla falange si moltiplicava per due il numero dei pachidermi, così due zoarchie formavano una therarchia (2 elefanti), due di queste una epiterarchia (4 pachidermi), e poi di seguito una ilarchia (8 elefanti), una elefantarchia (16 elefanti), una ceratarchia (32 elefanti, cioè mezza falange) ed infine la falange (64 elefanti).
Gli effetti degli elefanti sull’esercito avversario erano molteplici.



Si immagini un esercito, macedone, romano o gallico, che veda per la prima volta di fronte a sé degli elefanti schierati in battaglia. Animali mai visti prima, dalla strana forma che emanano un forte odore e dei forti barriti. Lo sconcerto che doveva prendere i soldati era sicuramente forte, poiché non sapevano cosa si fossero dovuti aspettare da quelle creature enormi. Consci di questo effetto terrorizzante sugli avversari, i sovrani che li usavano, li paravano in modo bizzarro, li tingevano a colori forti e variopinti, li coprivano di lamine di ferro sulla testa e sulle spalle, anche per difenderli dai dardi avversari. Usanza, questa, tipica degli eserciti indiani ed ellenistici.
Superata la prima fase dell’effetto psicologico, gli elefanti venivano lanciati contro le linee nemiche per sfondare il fronte. Se si pensa alla compattezza di una falange ellenistica, ben si comprende la necessità di tentare di romperla con masse d’urto consistenti. Gli elefanti, allora, venivano lanciati tutti contro un determinato ristretto settore dello schieramento, per scompaginarlo. Alle zanne venivano applicate delle punte d’acciaio, per rendere il colpo ancor più micidiale; già Plinio descrisse la meticolosità con cui l’animale, non ancora in cattività, si prendeva cura delle zanne. A quel punto, la fanteria che seguiva gli elefanti poteva infiltrarsi tra gli spazi aperti dai pachidermi.
Per questo motivo gli elefanti venivano schierati quasi sempre di fronte alle linee. Lanciati contro gli avversari, a questi non rimaneva che tentare di resistergli oppure di lanciare una controcarica di elefanti contro i primi, come nella battaglia Raphia dove contro la carica degli elefanti indiani a Tolomeo non rimase che lanciargli contri i propri, anche se quest’ultimi furono messi in fuga, dopo la spinta zanne contro zanne.
Sebbene addestrati alla zuffa, la loro maggiore utilità fu quella di spaventare i cavalli. Era contro la cavalleria l’uso migliore che ne poteva essere fatto, per via del timore che i cavalli hanno dell’elefante. Nella battaglia del fiume Idapse, il re indiano Poro dispose a distanza sufficientemente grande i suoi elefanti per far sì che la cavalleria di Alessandro, filtrando tra gli elefanti perdesse la sua efficienza. Allo stesso modo, a Ipso nel 301 a.C., gli elefanti di Seleuco impedirono alla vittoriosa cavalleria di Demetrio di ritornare in battaglia e di convergere al centro da dietro. Lo stesso Antioco I, re seleucide, riuscì a vincere l’armata celtica nel 268 a.C., grazie ad appena sedici elefanti che seminarono il panico tra la cavalleria celtica. Più che come arma di attacco, gli elefanti allora erano efficienti nel neutralizzare l’eventuale superiorità della cavalleria avversaria.



Con l’avvio della fase ellenistica inizia anche l’usanza di dotare l’animale di una torre posta sopra la schiena, sulla quale prendevano posto dei soldati dotati di archi e di sarisse. Polibio racconta (V, 85) come a Raphia, nello scontro tra elefanti, mente i pachidermi africani e indiani di Egiziani e Siriani si spingevano tra loro, i soldati dentro le torri colpivano gli avversari con le sarisse.
Quale fosse il numero dei soldati, varia con le fonti: tre secondo Plinio, quattro secondo Livio, dai 10 ai 15 secondo Appiano e Philostrato, fino all’esagerazione di 32 riportato nel Libro I dei Maccabei.
Se si confronta questi numeri con le fonti iconografiche e con il peso che può trasportare al massimo un elefante, tra i 12 e i 14 quintali, probabilmente il numero reale si aggira tra i tre e i quattro armati.
La presenza della torre, almeno sugli elefanti degli eserciti ellenistici, è comprovata da un elevato numero di fonti, iconografiche, scultoree, numismatiche e scritte.



Tali testimonianze, però, diminuiscono nel caso degli elefanti dell’esercito cartaginese. Le fonti romane raramente parlano delle torri sul dorso degli elefanti da loro affrontati durante le guerre puniche. Del resto, lo scopo principale era quello di terrorizzare e disorientare il nemico. Ma l’assenza della torre, che comunque non può essere generalizzata, oltre che determinata da motivi tattici poteva nascere da situazioni contingenti. Ad esempio, l’eccezionalità dell’intervento romano in Africa e la necessità di approntare rapidamente un esercito per affrontarli, fu la causa per cui gli ottanta elefanti che Annibale aveva a Zama erano montati dal solo guidatore.
Tuttavia, se per gli elefanti Cartaginesi incontrati dai Romani durante la I Guerra Punica nulla si può dire, Livio riporta (XXVIII, 14, 4) che nella battaglia di Baecula in Spagna (208 a.C.) gli elefanti dei Cartaginesi possedevano delle torri fortificate.
L’impatto che gli elefanti avevano sulle linee nemiche e il timore che incutevano sulla cavalleria erano controbilanciati dalla sua instabilità psichica, e dalle condizioni di alterazione dovute all’assunzione di liquori e droghe che venivano somministrate all’animale prima della battaglia. Non difficilmente il pachiderma si atterriva durante la battaglia, sia per il frastuono sia per i colpi che poteva ricevere sulle parti più sensibili, come la proboscide.



Nella battaglia di Zama (202 a.C.), Scipione fece posizionare davanti al suo schieramento numerosi suonatori e battitori per provocare un forte rumore, espediente che funzionò e che fu rovinoso per la cavalleria cartaginese investita dagli elefanti atterriti in fuga. Nella battaglia di Benevento (275 a.C.), Livio racconta come il barrito di un cucciolo di elefante ferito provocò un estremo disordine tra gli altri elefanti che tornarono indietro investendo gli epiroti.
Il controllo dell’animale è sempre stato il tallone d’Achille di questa arma altrimenti micidiale. I mahouts portavano con sé un piccolo arpione, con il quale avrebbero dovuto uccidere l’animale che si fosse diretto, imbizzarrito, contro il proprio fronte, assestandogli un deciso colpo tra la testa ed il collo, dietro l’orecchio.
Il problema del controllo era meno sentito per la specie asiatica che per quella africana, sempre più diffusa perché di più facile reperimento per le potenze del Mediterraneo.
Nonostante fosse un animale instabile che poteva anche risultare fatale per il proprio esercito, non va sottovalutato l’effetto complessivamente positivo che questo ebbe negli eserciti che lo utilizzarono. Il grande servizio che gli elefanti potevano rendere in battaglia è dimostrato dalle condizioni di pace imposte dai Romani ai Cartaginesi alla fine della II Guerra Punica: la consegna di tutti gli elefanti domati e la proibizione di addestrarne altri, che fa capire cosa pensassero i Romani degli elefanti sul campo di battaglia.



I Romani e gli elefanti

I Romani videro per la prima volta gli elefanti contro Pirro. E come gli altri avversari prima di loro, anch’essi rimasero atterriti dalla carica dei venti pachidermi indiani portati dal re dell’Epiro. La battaglia di Eraclea (280 a.C.) si risolse, grazie alla carica degli elefanti, in una sconfitta per i Romani.
Anche ad Ascoli (279 a.C.) i pachidermi di Pirro sconfissero i Romani che per affrontarli avevano costruito trecento carri da guerra, inutilmente.
Dopo queste prime esperienze negative, i Romani addestrarono speciali reparti per neutralizzare gli elefanti, esercitandoli sugli animali catturati al nemico. Nella successiva battaglia di Benevento (275 a.C.) i Romani riuscirono a spaventare gli elefanti, con le fiamme e con una pioggia di catrame, resina e zolfo bollenti; oppure, dirigendo i giavellotti e le frecce là dove l’animale era più sensibile, cioè la proboscide.



Dopo Pirro, i Romani si trovarono contro gli elefanti cartaginesi in Sicilia. Questa volta però, nella battaglia di Palermo del 251 a.C.  i cento elefanti cartaginesi fallirono completamente e furono catturati dai Romani (Plinio VIII, 16), per essere portati a Roma ed uccisi nei giochi gladiatori.
I Romani li affrontarono nuovamente in Italia, durante la spedizione di Annibale. Livio racconta come i ventidue più illustri cavalieri della XIII legione, vennero schiacciati dai pachidermi di Magone durante la battaglia nei pressi di Mediolanum nel 203 a.C.
Negli anni successivi gli elefanti consegnati dai Cartaginesi dopo la loro sconfitta, furono utilizzati dai Romani stessi contro l’esercito ellenistico di Filippo V di Macedonia. Evidentemente, la falange macedone costituiva uno scoglio effettivamente difficile da superare e l’uso degli elefanti poteva essere risolutivo. Nella battaglia di Cinocefale del 197 a.C., i Romani li schierarono sul loro fianco destro, opponendoli alla sinistra della falange macedone (Livio, XXXI, 36, 4).



Nella battaglia di Magnesia (190 a.C.), i Romani schierarono sedici elefanti africani contro cinquantaquattro elefanti indiani schierati dal seleucita Antioco III. Secondo Livio (XXXVII, 39, 13), consigliere di Antioco era Annibale, che avrebbe affermato come gli elefanti africani non avrebbero potuto resistere a quelli indiani, neanche a parità di numero, essendo i secondi di molto superiori per forza, grandezza e per coraggio. Indipendentemente dalla veridicità della testimonianza, l’affermazione sarebbe comunque vera, se si ricorda la battaglia di Raphia. Purtroppo per Antioco III, in quella battaglia l’esito venne deciso dalla fanteria, ormai assuefatta ad affrontare gli elefanti.
L’uso degli elefanti da parte dell’esercito romano proseguì per un secolo e mezzo. L’ultimo grande scontro che li vide coinvolti fu nella battaglia di Tapso (46 a.C.), dove il vincitore Giulio Cesare, sbaragliati i pompeiani, catturò i loro sessanta elefanti.
Dopo Cesare gli elefanti scomparvero dai campi di battaglia romani e vennero solo utilizzati come segno di prestigio, come nel caso dell’imperatore Claudio che si recò in Britannia con essi, solo per mostrare la sua magnificenza e la potenza di Roma alle popolazioni celtiche appena sottomesse.
Ormai gli elefanti da guerra furono impiegati solo nelle guerre dei Sassanidi.



Annibale

L’elefante compare nelle guerre dell’Occidente a partire dal III sec. a.C. Già poco dopo i Tolomei, anche i Cartaginesi iniziarono ad utilizzare gli elefanti in battaglia, prendendo forse le mosse dall’invasione siracusana in Africa del 310-307 a.C. condotta dal tiranno Agatocle, alleato del sovrano ellenistico Tolomeo d’Egitto.
Dalle fonti scritte, però, il loro uso è attestato a partire dalla I Guerra Punica, cioè circa quaranta anni dopo. La data precedente allora, assume un nuovo valore, proprio perché sono necessari alcuni decenni per poter allevare un elefante in cattività ed addestrarlo, il che riporta l’avvio dell’utilizzo all’inizio del III secolo.
Per necessità logistiche, considerata la difficoltà di approvvigionarsi di elefanti provenienti dall’India, i Cartaginesi utilizzarono gli elefanti del nord Africa e delle montagne dell’Atlante. Catturati con grandi battute di caccia, venivano poi allevati ed addestrati presso Cartagine. Secondo Strabone (XVII, 832), a Cartagine vi erano delle stalle-caserme capaci di contenere trecento elefanti da guerra.
Questi erano sicuramente più piccoli e più difficilmente addestrabili, ma di più facile reperimento.
Nonostante le esperienze negative della I Guerra Punica, quando l’ammiraglio cartaginese Annone portò con la sua flotta in Sicilia gli elefanti che finirono catturati dal console Lucio Cecilio Metello ed inviati a Roma (Diodoro XXIII, 8), i Cartaginesi utilizzarono i pachidermi nelle successive guerre, fino all’avventura di Annibale.



È con questa spedizione che gli elefanti vengono associati ai Cartaginesi, ed ancor più ad Annibale.
Nella lunga traversata, gli elefanti accompagnano le truppe cartaginesi che spesso devono affrontare grandi difficoltà per continuare a portarli con loro. Nell’attraversamento del fiume Rodano, per facilitare le operazioni, due elefanti femmine furono condotte per prime sulle grandi zattere di legno (circa 25 metri di larghezza), poiché dovevano attirare i maschi e indurli a seguirle, come puntualmente avvenne.
Certamente l’impresa che destò più stupore fu l’attraversamento delle Alpi, individuato nel 2016 nel Colle delle Traversette (2.950 m) nei pressi del Monviso, anche se dopo il passaggio un solo elefante restò ad Annibale (Iuven. X 158). Forse il più valoroso, quello di cui Plinio riporta il nome, Surus, per via dell’unica zanna che possedeva.
Nonostante ciò il condottiero cartaginese ricevette di rinforzo truppe ed elefanti, utilizzati dai suoi luogotenenti durante le battaglie di alleggerimento contro i Romani.
Ed elefanti ebbe per la battaglia di Zama, catturati sulle montagne dell’Atlante in gran fretta da Annone, per la difesa della Spagna e per, appunto la battaglia di Zama, i cui ottanta elefanti di Annibale, non solo non furono determinanti alla vittoria, ma la loro presenza risultò nefasta.

Bibliografia


§  Richard Glover, The Elephant in ancient war, in The Classical Journal, XXXIX, 5, 1944.
§  Cesare Cantù, Sulla guerra, Editore G. Pomba, 1843.
§  Affinati Riccardo, Storia militare degli animali, Soldiershop Publishing, 2016.

Figurini

Hät 8023 (1/72) - 6 elefanti, ciascuno con il conducente e due sulla torre.

Imbasettamento

§  4 basette 40 x 80 con un elefante con torretta;
§  2 basette 40 x 80 con un elefante senza torretta.