domenica 19 luglio 2020

Cavalleria Cartaginese


La caratteristica principale dell’esercito cartaginese era la sua composizione multietnica, dovuta allo sviluppo di un ambizioso programma di espansione che valse a Cartagine il controllo di parte dell’Africa del nord, della Spagna e delle isole maggiori del Mediterraneo. Le risorse umane che concorsero alla formazione dell’esercito erano propriamente puniche, alleate e mercenarie. Tale mosaico di forze, si riflesse tanto nella fanteria quanto nella cavalleria. Quest’ultimo corpo ebbe un rapido sviluppo durante le guerre puniche, quando il numero degli effettivi crebbe notevolmente, inglobando le unità di diverse popolazioni ed etnie.


Cavalleria dei Cittadini
La cavalleria dei Cittadini venne creata sul modello degli Hetairoi, i Compagni del Re macedone.
Sebbene di modesta consistenza numerica, formava una parte significativa della cavalleria punica ed era reclutata tra i ranghi della nobiltà, così come nella maggior parte degli eserciti antichi i nobili militavano tra i ranghi della cavalleria, per via del costo di mantenimento del cavallo ed il costo per acquistare l’armatura.  


Questa era composta da una cotta di maglie, un elmo bronzeo, gli schinieri, uno scudo piccolo per non essere di impiccio nelle evoluzioni, una lancia, un giavellotto ed una spada corta.
Pur formato dai nobili, è quasi certo che questi cavalieri non facessero parte del Battaglione Sacro, che invece veniva posto al centro dello schieramento e fungeva da guardia personale del comandante in capo dell’esercito punico.


Pensata come una cavalleria media, questa era un misto di stato maggiore, di guardia personale del comandante in capo (e dunque affiancava il Battaglione Sacro in questo compito) e degli allievi della scuola degli ufficiali. La loro particolarità risiedeva nel fatto di indossare tanti anelli d’oro per quante campagne nelle quali avessero servito.
Nel 202 a.C., a Zama, Annibale non riuscì a raccogliere più di mille cavalieri della Cavalleria Cittadina, e li posizionò sul suo fianco sinistro, opponendoli ai 2.000 equites di Gaio Lelio. Alla sua destra Annibale dispose i 2.000 numidi di Tiqueo affinché si opponessero ai propri connazionali, i 6.000 cavalieri numidi guidati da Massinissa, passato dalla parte romana. Vista l’inferiorità numerica della cavalleria, lo scopo delle due ali era solo quello di proteggere i fianchi della fanteria.
Ma così non fu. La cavalleria dei Cittadini, disordinata dagli elefanti impazziti ed in fuga per le ferite, venne travolta dalla cavalleria romano-italica di Lelio, mentre quella di Massinissa mise in fuga quella di Tiqueo, che morì nella battaglia. Disperse le cavallerie cartaginesi, quelle romane poterono tornare indietro e prendere i veterani cartaginesi alle spalle.



Cavalleria libico-fenicia
Sebbene armati come la precedente, la cavalleria libico-fenicia era un corpo differenziato rispetto alla cavalleria dei Cittadini, per via della diversa estrazione sociale dei membri. Armati anch’essi di lunghe picche e spade, per i combattimenti corpo a corpo, e protetti da armature di lino, dall’elmo, dagli schinieri e da un piccolo scudo rotondo, venivano utilizzati per neutralizzare le cavallerie avversarie impegnandole direttamente, oppure affrontando le fanterie meno strutturate, sorprendendole alle spalle.


Per meglio reggere a lungo i combattimenti corpo a corpo, anche i cavalli erano dotati di una protezione frontale, che copriva il collo ed il petto dell’animale. In tal modo, i cavalieri libico-fenici potevano ingaggiare battaglia e resistere a lungo nella mischia.

Cavalleria iberica
La cavalleria dei Cittadini e quella libico-fenicia, seppur bene armate ed addestrate, rappresentavano comunque una parte minoritaria delle forze di cavalleria dell’esercito cartaginese, soprattutto durante le guerre annibaliche.
Durante il secondo conflitto punico, gran parte della cavalleria venne arruolata tra i Celtiberi della Spagna, famosi per le capacità di effettuare caroselli sul campo.

Cavalleria Celtiberica media

Gli iberici conoscevano a fondo le pratiche dell’equitazione e addestravano i cavalli con grande dedizione. Uno degli esercizi più importanti consisteva nell'addestrare il cavallo ad inginocchiarsi e rimanere fermo e silenzioso per lungo tempo fino ad un determinato del segnale, quando allora si alzavano rapidamente. Questo esercizio era ovviamente funzionale alle tattiche di guerriglia utilizzate dai celtiberi e alle necessità dettate dalle imboscate.
Sebbene la cavalleria celtiberica fosse paragonabile a quella Numida in termini di velocità e destrezza, la tipologia di armamento in dotazione fece sì che venisse utilizzata come cavalleria media, per impegnare il nemico nella mischia, attaccandolo sui fianchi e rompendone i ranghi.
A volte portavano in sella anche un giovane armato di falcata e di caetra che, una volta iniziata la mischia, scendeva di sella e combatteva a piedi.

Cavalleria leggera caltiberica che monta cavalli ispanici dal manto falbo

L’armamento dei cavalieri iberici era molto simile a quello degli scutari. Protetti da un elmo, una cotta di maglie e dagli schinieri, erano armati di una lancia con una punta metallica lunga dai trenta ai sessanta centimetri, che veniva incastonata nell’asta, e da una falcata. L’unica differenza sostanziale con gli scutari era data dal piccolo scudo rotondo, la caetra (quello utilizzato dai caetrati), e non da quello ovale. La difesa del cavallo, invece, si riduceva ad una lastra metallica posta sulla fronte.
I cavalieri iberici usavano le briglie ed il morso, una barra di ferro a forma di falce luna, mentre non era diffuso l’uso della sella. Anche se in alcune raffigurazioni vengono rappresentati con delle selle di tipo ellenico, era molto più diffuso l’uso di una stretta coperta sul dorso del cavallo. Viceversa, vi sono testimonianze archeologiche dell’uso della ferratura. Anzi, poiché i più antichi rinvenimenti dei ferri di cavallo sono avvenuti nei tumuli rinvenuti nel centro della penisola Iberica, questo porta a supporre che furono proprio i Celtiberi ad introdurre l’uso della ferratura.

L’intera cavalleria celtiberica

Durante le guerre annibaliche, i Celti fornirono numerosi guerrieri al generale cartaginese. Come spesso accade nella storia dei Celti, anche in questo caso non è chiaro a quale titolo i guerrieri Celti fossero entrati nell’esercito cartaginese. La prima evidenza è che fossero stati assoldati da Annibale come mercenari: fatto normale per i Cartaginesi reclutare mercenari e per i Celti essere assoldati. 

Cavalleria leggera celtica

Non va però dimenticato che la seconda guerra Punica si svolse nel bel mezzo delle guerre galliche. Già da qualche decennio i Romani stavano avanzando fin dentro ai territori gallici e la partecipazione dei Celti nelle guerre di Annibale potrebbe essere dovuto all’ultimo tentativo dei Celti di riconquistare la propria libertà.
Qualunque sia il motivo per cui i Celti combatterono tra le file Cartaginesi, le loro cavallerie rappresentarono una parte cospicua delle truppe montate di Annibale.

La cavalleria Numida fu una eccellente cavalleria leggera, forse la migliore del mondo antico. I cavalieri montavano i piccoli ma agili e veloci cavalli arabi, abituati al clima rigido delle montagne a nord del Sahara. I cavalieri non indossavano armature ma solo dei chitoni e si proteggevano con un piccolo scudo di vimini ricoperto di pelli. Le loro armi erano quasi esclusivamente i giavellotti. I cavalieri cavalcavano senza sella, briglie e morso.

Cavalleria numida

Esperti nella schermaglia, i cavalieri comparivano improvvisamente, attaccavano rapidi e poi si dileguavano prima ancora che l’avversario potesse avere il tempo di organizzare la risposta. Mobilità, agilità e velocità erano le loro armi vincenti. Con manovre diversive e di schermaglia la formazione induceva i nemici ad azioni avventate, che stanchi di subire passivamente le schermaglie dei numidi rispondevano alla provocazione. Ciò accadde nel 217 a.C. quando i cavalieri numidi costrinsero i romani ad attaccarli, ma scapparono al loro sopraggiungere. Poi, i Numidi iniziarono a bersagliarli con i dardi evitando costantemente il contatto, fino ad annientarli.

·         Terence Wise, Armies of the Carthaginian Wars 265-146 BC, (collana Men at Arms, 121). Osprey Publishing, Oxford 1982.

Cavalleria dei Cittadini

Figurini
§  Hät 8056 (1/72) – Carthaginian Command and Cavalry; 12 cavalieri.
§  Zvezda 8031 (1/72) - Cavalleria numida - 5 cavalieri non inseriti nella cavalleria numida propriamente costruita, che vanno a formare due basette.

Imbasettamento
  • 3 basette (80×40 mm della Bandua Wargames) di Cavalleria media cartaginese con cavalli protetti (Hät)
  • 1 basetta di Cavalleria media con cavalli non protetti (Hät)
  • 1 basetta di Cavalleria media celtiberica (Zvezda)
  • 1 basetta di Cavalleria leggera celtiberica (Zvezda)
Cavalleria cartaginese

Decalcomanie

Sugli scudi sono stati applicate delle decalcomanie della https://www.littlebigmenstudios.com/ specifici dei cartaginesi.

venerdì 8 maggio 2020

Facciamo l'erba

In questo articolo impareremo a fare l’erba per i nostri diorami e per le nostre basette.
Ovviamente si può comprare direttamente nei negozi di modellismo, ma:
  1. con l’importo di una bustina di erba comprata al negozio è possibile fare una quantità di erba decisamente superiore. Se si deve fare solo qualche basetta, potrebbe non essere conveniente, ma se dovete mettere l’erba su interi eserciti e oltre un centinaio di basette, allora conviene farsela.
  2. la soddisfazione di autoprodursi il necessario è impagabile
Cosa serve

Un contenitore largo, un colino (più grande è, meglio è), un bicchiere di plastica, un contenitore da gelato da 500 gr (prima mangiate il gelato) del gusto che preferite, un foglio da giornale per non sporcare il tavolo, un guanto di plastica, colore acrilico verde a vostra scelta, dell’acqua e la segatura.




La segatura non serve che sia fine. Se potete scegliere prendete quella più fine, in caso contrario prendete quello che c’è.

Procedimento

Mettete la segatura nel contenitore del gelato, fino ad arrivare a metà.


In un bicchiere mettete il colore che preferite, fino a metà. L’altra metà del bicchiere riempitelo con acqua.

Maneggiate il tutto fino a far diluire perfettamente il colore nell’acqua e poi versatelo sulla segatura, distribuendolo ovunque.


Infilate il guanto ed iniziate a maneggiare. Maneggiate bene, fino a quando tutta la segatura non sia colorata di verde.


Ora l’impasto è pronto per l’asciugatura.


Se è estate, fatela asciugare al sole, che è più veloce; se è in inverno, potete mettere il contenitore sopra al calorifero. In estate, al sole, in due giorni la segatura sarà asciutta; sopra al calorifero ci può volere anche una settimana.


Per facilitare l’asciugatura, mescolate bene una o due volte al giorno.


Si passa alla seconda fase, quella del filtraggio.


Mettete il composto un po’ per volta nel colino, con sotto il contenitore grande. Iniziate a mescolare con le mani all’interno del colino, facendo strisciare le dita sulla retina del colino. Le particelle più piccole passeranno e cadranno nel contenitore.

Potete anche usare il colino, appoggiato ad un imbuto inserito direttamente nel barattolo dentro cui conserverete il vostro preparato. E potete anche aiutarvi con uno strumento, per maneggiare: nella figura il manico di un coltello.

Più maneggiate, più particelle attraverseranno il colino.
Alla fine, dentro al colino rimarranno le parti più grandi; nel contenitore ci saranno le parti più piccole, la vostra erbetta, che conserverete in un barattolo.
Di seguito, la differenza tra quello che passa e quello che resta nel colino. Questa parte non buttatela, potrebbe servirvi per altro, ad esempio per fare le foglie degli alberi.

La vostra erba è pronta per l’uso.

Ovviamente, potete scegliere il verde di cui avete bisogno, più o meno chiaro.

Buon lavoro e buon divertimento!

giovedì 7 maggio 2020

I Celti in Oriente

Nel VI secolo a.C. si ebbe la massima espansione del mondo celtico. Le popolazioni celtiche popolavano l’Europa centrale si espansero alla ricerca di nuovi territori. Ampie parti della popolazione abbandonarono le terre di origine ormai non più sufficienti a sostenere l’aumento della popolazione.
Attraverso il ver sacrum, popolazioni di origine celtica varcarono le Alpi spingendosi verso sud, mentre altre si spostarono verso est, verso quelle che divennero le sedi danubiane.
Circa due secoli dopo, le sedi danubiane conobbero un ulteriore flusso migratorio di popolazioni celtiche. In Italia, l’ascesa della potenza romana da un lato bloccò l’espansione celtica verso sud; dall’altra la pace stipulata tra i Romani ed i Senoni nel 332 a.C. liberò ingenti forze militari che si riversarono sui Balcani in cerca di maggior fortuna.



Galata cadente, Museo Archeologico di Venezia

Tuttavia, l’espansione verso sud era interdetta anche nella penisola Balcanica. La potenza macedone, sotto il regno di Filippo II e poi di Alessandro Magno costituiva di fatto un ostacolo alla possibilità di scorrerie. Durante il regno Alessandro Magno, consci della superiorità macedone, i Celti mantennero sempre rapporto amichevole con il vicino del sud, fino a scambiarsi doni reciproci (Strabone, Geografia, VII). I buoni rapporti di vicinato vennero rinsaldati con le ambascerie a Babilonia nel 324 a.C. che i Celti inviarono presso la corte di Alessandro Magno per congratularsi con lui della sua conquista; ambasceria che venne fatta anche da altri popoli mediterranei.
La situazione cambiò con la morte di Alessandro. Le guerre di successione indebolirono i regni ellenistici sorti sulle macerie dell’impero universale, aprendo di fatto le porte alle invasioni celtiche.
Dopo un primo timido tentativo nel 310 a.C., si ebbe una seconda spedizione nel 298 a.C. che venne fermata sul Monte Emo da Cassandro, re di Macedonia.

Galata morente, Musei Capitolini

La situazione cambiò nel 281 a.C., quando dopo la battaglia di Curupedio tra i diodachi di Alessandro la situazione politica e militare divenne sufficientemente instabile da permettere un’invasione celtica.
Nel 280 a.C., dalla pianura pannonica, in cui si era concentrato un gran numero di popolazioni celtiche, prese le mosse quella che fu la più grande spedizione celtica contro la Grecia. Le direttrici dell’immensa invasione seguirono tre percorsi. Keretrio guidò il primo troncone verso la Tracia, il cui esercito era indebolito dagli scontri contro Seleuco I, la devastò, rese schiavi i Triballi e rientrò nelle pianure di partenza. Contemporaneamente, Bolgio guidò un secondo contingente verso sud, risalì con facilità la Morava, fino ad invadere l’Illiria e la Macedonia. Nella battaglia che seguì contro l’esercito macedone, il reggente di Macedonia Tolomeo Cerauno fu ferito, catturato ed infine decapitato. Devastato e saccheggiato il regno macedone, i Celti rientrarono nella conca carpatica da cui erano partiti senza preoccuparsi di consolidare le conquiste fatte. Il terzo contingente di ottantacinquemila guerrieri, comandati da Akichorio e Brenno, invase la Peonia e puntò verso la Grecia centrale, attratti dagli ingenti tesori che si favoleggiava fossero custoditi nel santuario, la cui fama superava di gran lunga i confini del mondo ellenico.
Durante la marcia, ventimila celti al seguito di Leonnorio e Lutario i separarono dal corpo principale a causa di malintesi e si diressero in Tracia. Il corpo principale, composta da 152.000 fanti e 61.200 cavalieri, attraversò la Tessaglia fino ai confini della Grecia. Poco tempo prima, una precedente spedizione celtica guidata da Cambaule, aveva tentato una incursione che però si era ritirata dopo aver raggiunto la Tracia perché conscia di essere in decisa inferiorità numerica rispetto alle popolazioni greche. Furono i partecipanti a questa incursione che spronarono l’imponente spedizione di Akichorio e Brenno.

Galata morto, Museo Archeologico di Venezia

Brenno sconfisse nuovamente i Macedoni guidati dal generale Sostene, invase la Tessaglia e la devastò, poi si diresse verso la Grecia, fino a giungere nei pressi delle Termopili nel 279 a.C. I Greci, atterriti dall’arrivo dei Celti, furono indecisi se fuggire o rimanere ma conoscendo le sorti toccate alle popolazioni tracie, macedoni e della Peonia vittime dei Celti, si resero conto che in gioco non c’era solo la libertà, come al tempo delle guerre persiane, ma della loro stessa vita. Così, una coalizione di greci formata da combattenti di Locri, di Megara, dell’Etolia, della Macedonia e della Ionia, al comando di un contingente ateniesi si oppose alle orde celtiche. Essi tentarono di fermare i Celti sulla sponda sinistra del fiume Spercheo, in Ftiotide, inviando truppe di cavalleria e fanteria leggera a distruggere i ponti sul fiume per bloccare il guado. Tuttavia, i Celti aggirarono il presidio greco e riuscirono a guadare il fiume più a nord. Una volta giunti sulla sponda destra, discesero facilmente fino a raggiungere le Termopili.
Pausania racconta la battaglia: da un lato i Celti che si lanciarono all’attacco urlando, senza raziocino, armati di sole spade e scudi, privi di armature; dall’altro, i Greci schierati in buon ordine, con i corpi degli schermagliatori che lanciavano sassi, giavellotti e frecce contro i Celti, pur rimanendo sempre lontani da questi e vicino alle truppe greche. Contemporaneamente le triremi ateniesi costeggiarono la riva melmosa fino a portarsi sul fianco sinistro celtico e lo bersagliarono di frecce.
Ancora una volta, le orde barbariche vennero fermate alle porte della Grecia ed i narratori ateniesi celebrarono l’evento paragonandolo alla più famosa battaglia che qui, nel 480 a.C., vide contrapporsi i Persiani contro gli Spartani ed i Tespiesi.
Nell’impossibilità di forzare lo schieramento greco, i Celti si ritirarono nello scompiglio. Brenno allora fece staccare dall’esercito una colonna, ordinandole di invadere l’Etolia, terra di uno degli eserciti coalizzati, per tentare di indebolire il fronte greco. Questa colonna risalì lo Spercheto fino a Ypati e da qui si diresse a sud, lasciandosi sulla sinistra il massiccio del Monte Giona, fino a giungere a Callion, che venne devastata. La manovra funzionò perché gli Etoli abbandonarono la coalizione per andare a difendere le proprie terre. Tuttavia, seppur indebolito, il resto dello schieramento greco si mantenne saldo.
Il grosso dell’esercito celtico, allora, evitò di forzare il blocco delle Termopili ma lo aggirò seguendo i sentieri interni dietro le montagne. Scoperta la manovra, i Greci si imbarcarono sulle triremi ateniesi prima che l’accerchiamento fosse completo e riuscirono a mettersi in salvo. La strada per i Celti era aperta ed essi si diressero verso Delfi. La popolazione atterrita si rivolse all’oracolo, chiedendo se avessero dovuto mettere in salvo i tesori contenuti nel santuario. Ma la risposta del Dio fu incoraggiante per i Greci, perché Apollo rispose che sarebbe stato lui stesso a proteggere il suo tesoro e a sconfiggere i Celti.

Galata suicida, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma

Nei pressi del Santuario, ai 65.000 guerrieri Celti, si opposero gli opliti della Beozia, della Focide e dell’Etolia, regione emergente della Grecia centrale, per un totale di 4.000 armati. Seppure in inferiorità numerica, la battaglia fu favorevole ai greci: gli opliti si scagliarono compatti contro il fronte celtico, impossibilitato ad usare la cavalleria nelle anguste valli di fronte a Delfi; poi ulteriori rinforzi di focesi ed etoli, che conoscevano bene quei luoghi, scesero dai fianchi delle montagne ed assalirono i Celti sui fianchi.
L’esito della battaglia fu dovuto da un lato alla strenua resistenza dei Greci, spronati dall’avere dalla loro parte il dio Apollo come dedussero dai fulmini, dai tuoni, dai terremoti e dalle frane che si riversarono sulle schiere celtiche (Pausania), dall’altra dall’indebolimento dei Celti dovuto alla rigidità dell’inverno greco e alla concomitanza di un'epidemia, e certamente non all’ebrezza da vino narrata dagli antichi. La sconfitta costrinse i Celti a ritirarsi e giunti ad Eracle, il re Brenno ferito durante la battaglia ed incapace di sopportare il dolore si tolse la vita.
Se Delfi sia stata saccheggiata o meno, rimane un dato incerto. Da un lato i Greci esaltarono la loro vittoria, il salvataggio del santuario e la sconfitta subita dai Celti. Un inno delfico inizia proprio narrando la resistenza dei Greci, protetti da Apollo, contro l’invasione dei Galati e la profanazione del tempio. Viceversa, la propaganda romana avvallerà il sacco di Delfi per poi poterne rivendicare il lavaggio dell’onta. La statuaria romana ritrae i Celti che fuggono rincorsi dai Greci, ma che durante la fuga perdono parte del loro bottino; la letteratura narra del bottino di Delfi nascosto nel santuario celtico di Tolosa e recuperato dai Romani nel 105 a.C. dopo aver sconfitto i Volci.
Le gravi perdite subite e la morte di Brenno, provocò la dispersione dell’armata celtica. Una parte fece ritorno nelle pianure danubiane per fondersi nella confederazione celto-illirica degli Scordisci, mentre una parte consistente di guerrieri si diressero verso la Tracia e si ricongiunse, nel 278 a.C., con i ventimila guerrieri di Leonnorio e Lutario.
Seguiti dalle tre tribù dei Trocmi, dei Tectosagi e dei Tolistobogii, i due condottieri vennero chiamati in Asia Minore da Nicomede I, re ellenistico di Bitinia. Costretto a combattere contro un tentativo di usurpazione da parte del fratello Zipoite, Nicomede I li arruolò come mercenari nel proprio esercito. Attraverso il Bosforo Leonnorio e attraverso l’Ellesponto Lutario, le tribù celtiche raggiunsero l’Asia Minore.
Vinto Zipoite ed abbandonata la Bitinia carichi di bottino ma decisi a fermarsi in Asia Minore, si mossero in cerca di un territorio da abitare. Con le loro scorribande minacciarono le ricche città della Ionia, da Ilio a Mileto, dove rapirono le partecipanti alle Tesmoforie per liberarle in cambio di un riscatto. Si scontrarono con Tolomeo in un luogo non noto della Cappadocia, vincendolo. Ma quando vollero minacciare autonomamente la Siria, dopo alcuni scontri dall’esito incerto, furono definitivamente sconfitti dal re seleucide Antioco I. Nella battaglia degli elefanti (268 a.C.) gli appena sedici elefanti di Antioco I seminarono il panico tra la cavalleria celtica, decretando l’esito della battaglia.

Fregio fittile del Tempio di Civitalba

Per circa quaranta anni i Celti, con il loro sistema di rapine e saccheggi, di riscatti e di tributi, tennero in continuo allarme i regni ellenistici.
Tale situazione proseguì fino a quando Attalo I, divenuto re di Pergamo nel 241 a.C., si rifiutò di pagare il consueto tributo ai Celti, scendendo in guerra contro di essi. Nello scontro nei pressi delle fonti del fiume Kaikos, ad est di Pergamo (230 a.C.), Attalo I inflisse una pesante sconfitta ai Celti. Dopo altre vittorie minori, i Celti furono definitivamente relegati in una regione interna dell’Asia Minore, che dal nome greco dei Galati, si chiamò Galatia.
Le vittorie greche furono celebrate mediante la realizzazione di importanti gruppi scultorei e da pitture, edificati ad Atene, a Pergamo, a Delfi; attraverso di esse Attalo I si presentò come il difensore della civiltà ellenica contro la barbarie paragonando la sua vittoria sui Galati alle vittorie del V secolo sui Persiani, accostando quindi il ruolo e la fama di Pergamo a quella di Atene.
Questa stessa forma celebrativa venne ripresa dai Romani a seguito delle vittorie sui Celti in Italia, in particolare dopo la battaglia di Talamone del 225 a.C. e con la realizzazione del frontone fittile del tempio, direttamente collegato a quello del tempio di Civitalba, dove i Celti, carichi di bottino, vengono messi in fuga.

Bibliografia

  • Pausania, Viaggio in Grecia, Delfi e Focide (Libro X), BUR 2011, trad. it. Salvatore Rizzo.
  • Maria Teresa Grassi, I Celti in Italia, Longanesi, 2009.
  • Venceslas Kruta, I Celti e il Mediterraneo, Milano, Jaca Book, 2004.

lunedì 6 aprile 2020

Città e villaggi celti

Nella discussione riguardante la corretta cronologia della presenza celtica in Italia, una delle argomentazioni a favore della “cronologia breve”, quella di tradizione greca che sostiene l’inizio delle invasioni celtiche in Italia tra il V e il IV secolo a.C., è la scarsa presenza di materiali archeologici, soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti.


Villaggio celtico con tre diverse tipologie costruttive

Tuttavia, è lo stesso Polibio che descrive i Celti come popolazioni nomadi o seminomadi, i cui unici possedimenti erano gli armenti e l’oro. Anche secondo le fonti antiche, i Celti furono sempre molto mobili, sospingendo con loro il bestiame e trasportando gli averi ed i beni sui carri. Pochi averi materiali, se non oro. A lungo, durante la loro storia, i Celti si mantennero fortemente mobili, pur non nomadi, senza tuttavia fermarsi in alcuna località particolare, senza iniziare la pratica dell’agricoltura stanziale e con essa modificare il paesaggio. Le popolazioni celtiche hanno potuto abitare a lungo su un territorio senza per questo lasciare tracce visibili. Pertanto, scarse risultano le testimonianze archeologiche più antiche.
In questo quadro, non solo risulta normalmente compatibile la cronologia liviana, che anticipa di due secoli l’arrivo dei Celti, ma anzi, a fronte delle evidenze archeologiche fornite dalla datazione delle necropoli, diviene la prova delle modalità abitative delle popolazioni celtiche.
Ne sono un esempio i Galli Senoni, ultimi arrivati in Italia tra le popolazioni celtiche, che iniziano a fondare dei centri urbani solo a partire dal IV-III secolo a.C. e non all’inizio del loro insediamento. Questo vuol dire che la fase urbanistica per questa popolazione, così come per altre, rappresenta la fase finale della sua presenza nel territorio italico e non quella iniziale.


Le scarse testimonianze archeologiche, le fonti antiche, le similitudini con altre popolazioni seminomadi e fortunati ritrovamenti, fanno comunque pensare ad una distribuzione sul territorio basata sulla permanenza di piccoli gruppi raccolti all’interno di villaggi.
Ognuno di questi era separato dagli altri pur mantenendo stretti vincoli culturali con i vicini. Vicus è il termine latino per individuarli, quando posti nelle radure dei boschi, in collina o pianura, contrapposto al castella, o fortezza d’altura, abitato circondato da un muro di difesa.
I villaggi erano dominati da élite oligarchiche a cui facevano riferimento un vario numero di clientes, ed i rapporti di forza tra gli esponenti dell’oligarchia erano determinati dal numero di clientes che ognuno aveva.

Casa celtica secondo le ricostruzioni fatte a Castell Henllys, nel Galles

I piccoli villaggi erano autonomi tra di loro, ma in alcuni casi, come presso gli Insubri, essi gravitavano nell’orbita di un centro più grande, l’oppidum. Il territorio e le vie di comunicazione terrestri e fluviali venivano quindi controllate attraverso una stella di strutture insediative al cui centro una città di più grandi dimensioni ne condizionava l’evoluzione e presidiava le strutture di un'economia ancora in via di decollo, fortemente basata sull’allevamento e sul mercenariato.
Gli Insubri del resto rappresentarono una sicura eccezione. E’ con l’arrivo in Italia di Belloveso che venne fondata Mediolanun (che in celtico significa “in mezzo alla pianura”) nel VI secolo a.C., unico caso di cui si abbia notizia storica della fondazione di una città. Situazione sicuramente anomala rispetto alle altre tribù celtiche, Mediolanun doveva essere un centro di una certa rilevanza, e non un piccolo insediamento che, secondo Strabone, dovette attendere l’intervento romano per trasformarsi da villaggio a città. Se i Romani incontrarono notevoli difficoltà per la sua conquista (222 a.C.), è perché Mediolanum avrà avuto delle strutture difensive adeguate, forse anche dotata di mura. Di sicuro al suo interno vi era costruito un tempio per il culto di una divinità molto importante, simile ad Atena, culto sentito anche al di fuori dell’ambito prettamente cittadino.


Ancora presso gli Insubri, più a nord di Mediolanum, il controllo del territorio si esplicava attraverso una relazione di dipendenza tra la Comum Oppidum ed i ventotto castella, che arrivavano fino alla costa nord del lago di Como. Alla conquista romana del centro fortificato, i castella si arresero anch’essi, il che indica il rapporto di subordinazione tra il centro ed i villaggi periferici.
Dal II secolo a.C. si radicalizzò il processo di romanizzazione dei celti pur senza un intervento diretto romano. Si diffusero oggetti, idee, modelli culturali, stili di vita del dominatore, e con essi prese piede l’urbanizzazione. I centri urbani rafforzarono la loro presenza, mentre quanti tra i celti non vollero perdere le loro abitudini, vennero allontanati e relegati ai margini del mondo che si andava costruendo.
Appartenente ad una fase precedente, risale un abitato etrusco-gallico situato a Monte Bibele, nel territorio dei Boi. Per difendersi dall'invasione celtica dei Boi, che segnò il declino dell’Etruria padana, le popolazioni etrusche lasciarono i centri urbani posti in pianura per rifugiarsi sulle alture, meglio difendibili. Fuggendo da Felsina (Bologna), da Marzabotto e da altri centri, ormai in declino sotto la spinta celtica, alcuni etruschi si rifugiarono a Monte Bibele, a sud di Bologna, dove fondarono un nuovo insediamento.


L’area fu disboscata e la forte pendenza della montagna (dal 10 al 30%) venne spezzata con la costruzione di una decina di terrazzamenti successivi, secondo un andamento nord-sud.
Verso il 350 a.C., all'interno dell'abitato si insediò della popolazione celtica e nella stessa città i guerrieri celti ed i mercanti etruschi convissero pacificamente anche grazie ad una politica matrimoniale di scambio, dove donne appartenenti a famiglie etrusche andarono in spose ai guerrieri celti. Evidenza testimoniata dai ritrovamenti nella necropoli associata all'abitato, dove nelle tombe dei guerrieri celti sono stati ritrovati oggetti femminili con incisi i loro nomi etruschi.
L’abitato fu costruito su una serie di terrazzamenti con il quale venne resa abitabile la costa del monte. Le case, a pianta rettangolare, erano raggruppate in piccoli isolati, ognuno di essi posti a quota diversa dagli altri, disposti sulle terrazze lungo le pendici.

Pioverà, meglio chiudere la porta…

Le case, che avevano delle dimensioni di circa 30-40 m2, erano costruite con materiali diversi, tutti di origine locale. Un bordo esterno in pietra assicurava l’impermeabilità delle pareti dalle acque piovane e di scorrimento superficiali, mentre la struttura in legno, di cui è rimasta traccia nel terreno, si ergeva verso l’alto a sorreggere le pareti ed il tetto.
I muri erano formati da lastre di arenaria e di terreno argilloso bagnato, mentre i pavimenti erano in terra battuta. Sotto la terra battuta poteva venir posto uno strato di ghiaia utilizzato per livellare il terreno. All’interno delle case era presente un focolare, mentre il forno, per la cottura sia di cibi sia di utensili, era posto all’esterno.
In alcuni casi era presente un piano superiore, retto da pali in legno.
A Monte Bibele il tetto delle abitazioni era presumibilmente di paglia e di altri materiali vegetali, identico a quello di molti altri abitati celti del nord Europa, come le coperture delle case circolari rinvenute a Castell Henllys nel Galles e risalenti al periodo compreso tra il 500-100 a.C. A Monte Bibele, infatti, mancano gli elementi di copertura del tetto in laterizio, tecnica utilizzata dagli Etruschi ma, in quel periodo di decadenza, ormai abbandonata.


Oltre alle abitazioni private sono state scoperte strutture di carattere pubblico: una grande cisterna circolare per la raccolta dell’acqua, presumibilmente di uso comune e dei magazzini. Questi erano formati da un muro in pietra perimetrale alto circa un metro, erano coperti da un tetto di argilla e al loro interno venivano posti i vasi fittili che contenevano i prodotti agricoli deperibili.
Nell'abitato era presente anche un sistema di strade e viottoli che collegava i vari isolati. Le strade erano lastricate con ciottoli la cui pendenza fungeva anche da sistema di scorrimento delle acque piovane verso i settori non edificati ai margini dell'abitato.
Nella parte inferiore, su una parte leggermente rialzata in roccia, era presente l’auguraculum, cioè il tempio che accolse i riti augurali di fondazione dell’abitato, limitato da un piccolo recinto in pietra con due pozzi laterali.

Casa celtica secondo la ricostruzione fatta a Monte Bibele

Il villaggio sopravvisse per quasi tre secoli, fino agli inizi del II sec. a.C., quando venne distrutto. Il periodo corrisponde alla conquista romana del territorio padano e alla guerra contro i galli Boi condotta senza quartiere contro campi (acri), villaggi (vici), abitati d’altura (castella) e fattorie (tecta) per piegare la resistenza celtica. Fu quasi certamente questa la fine dell’abitato e il vasto incendio documentato dalle sue strutture ne sarebbe la prova.

Muro gallico

Una struttura abitativa come quella di Monte Bibele sarebbe uno di quei vicus in cui viveva la popolazione celtica, che eventualmente rispondeva ad un centro di maggiori dimensioni, posto ad una certa distanza.
Nell’oppidum centrale, le case, realizzate con le stesse tecniche costruttive, erano circondate da un muro difensivo, la cui struttura venne descritta da Giulio Cesare nel suo De bello gallico (VII, 23).

Il muro celtico: si vedono i pali longitudinali che formano il muro, poi riempito dal terrapieno, secondo la ricostruzione fatta a Bibracte

Il muro gallico era composto da una intelaiatura di pali di legno posti ortogonalmente tra di loro nei vari ordini ed i cui interstizi erano riempiti di pietre. Inizialmente veniva disposta a terra una prima fila di pali paralleli distanziati tra loro di circa mezzo metro. All’esterno, lungo quello che sarebbe stato il bordo visibile del muro, venivano poste delle pietre abbastanza regolari, affinché i vari strati si fossero incastrarsi tra di loro. All’interno, invece, lo spazio veniva riempito con pietre e sassi. Poi, si appoggiavano altri pali sopra ai primi, perpendicolarmente, distanziati sempre della stessa distanza di mezzo metro. Questi ultimi venivano legati a quelli dello strato inferiore e poi si proseguiva facendo il bordo con pietre squadrate e l’interno riempito di sassi di diversa grandezza. Si proseguiva così per tutti gli strati superiori, fino a raggiungere l’altezza desiderata. Al di sopra del terrapieno, veniva eretta una palizzata. Il vantaggio di questo tipo di muro consisteva nel fatto che non veniva rotto dalla forza di un ariete, perché l’anima interna di legno assorbiva i colpi, ma allo stesso modo la pietra che ricopriva i pali faceva sì che non si potesse bruciare. Né i pali potevano essere sfilati, perché legati gli uni agli altri.

Dalla fine del primo quarto del II secolo a.C., il ritorno dei Boi ricacciati dai Romani dalla Gallia Cisalpina nelle zone dell’Europa centro-orientale, permise la fioritura degli oppida celtici in quelle regioni. Portatori di un bagaglio culturale urbano acquisito nei contatti con il mondo etrusco-italico, i nuovi Celti furono promotori dello sviluppo delle città in Boemia, nelle cui strutture oggi riscoperte si riconoscono i segni di una pianificazione preventiva del reticolo urbano la cui realizzazione richiese decenni.
Lo sviluppo degli oppida, quindi, non fu dovuto alle semplici necessità difensive, ma fu la risposta culturale alle necessità di una società ormai evoluta.




Antonio Gottarelli (a cura di), Archeologia nell’alta valle dell’Idice, Edizioni Templa, 2015
Maria Teresa Grassi, I Celti in Italia, Longanesi, 2009
Caio Giulio Cesare, La guerra gallica, Biblioteca Universale Rizzoli, 2014

Modelli

Case autocostruite usando poliuretano in lastre di spessore 2,5 cm (trovabile in qualunque negozio di fai da te, tra i materiali da isolamento), stuzzicadenti, cartoncino, sassolini e colla.
I colori sono normali acrilici da cartoleria.
Per l'erba, si veda l'articolo "Facciamo l'erba".




  • Il modello conico è ripreso dalle ricostruzioni di case celtiche a Castell Henllys, nel Galles.
  • Il modello dal tetto spiovente è ripreso dalle ricostruzioni di case celtiche di Monte Bibene.
  • Il modello di casa lignea è supposto per analogia con altre costruzioni presenti attualmente in ambienti boschivi.
  • Il muro celtico è ripreso dalle ricostruzioni di Bibracte.